Jacques Anquetil e il Giro d’Italia del 1964

Domani, 4 maggio 2024, partirà da Venaria Reale (in Piemonte) la 107a edizione del Giro d’Italia; in ventuno tappe giungerà a Roma il 26 maggio (per la seconda volta consecutiva e per la sesta volta nella storia della corsa). Favorito è uno straniero (come avviene da anni a questa parte), cioè il grande campione sloveno Tadej Pogačar, già vincitore di due Tour de France (2020 e 2021).

In me il Giro d’Italia suscita molti ricordi; da ragazzo infatti ero molto appassionato di ciclismo.

Nel mese di maggio le tappe erano trasmesse solo per gli ultimi 20 km e l’orario di inizio del collegamento dipendeva dal ritmo con cui i ciclisti viaggiavano.

Accendevo la TV nel soggiorno (unico televisore della casa, ovviamente in bianco e nero) e dalla vicina cucina (dove facevo i compiti di scuola media o del liceo) attendevo che la musichetta interlocutoria cessasse; ogni tanto una voce diceva: «Siamo in attesa di collegarci con *** per trasmettere le fasi finali della tappa del Giro d’Italia». Erano attese lunghe; però spesso mi consentivano di completare il lavoro scolastico, sicché potevo poi seguire la trasmissione senza pensieri.

Il telecronista principale era Adriano De Zan, che era capace di riconoscere un ciclista fra cento in un gruppo lanciato nel volatone finale; conosceva alla perfezione (altro che Wikipedia e internet) tutte le notizie relative a tutti i corridori.

A volte, in alcune tappe di montagna sulle Alpi, l’elicottero che faceva da “ponte” per i collegamenti video non poteva decollare per il maltempo; quindi non si potevano avere le riprese della telecamera mobile e una telecamera fissa inquadrava la linea del traguardo. Allora De Zan cedeva la linea a Claudio Ferretti in collegamento audio; e Ferretti dalla motocicletta informava con chiarezza ed efficacia i telespettatori (tornati momentaneamente radioascoltatori) sullo sviluppo della tappa.

Dopo l’arrivo, veniva trasmesso il “Processo alla tappa”, condotto da Sergio Zavoli.

Il primo Giro d’Italia che seguii fu quello del 1964, che partì da Bolzano il 16 maggio; ho ancora un vecchio album in cui incollai le notizie sulla corsa, i vincitori di tappa e le maglie rosa.

I partecipanti erano 129, suddivisi in 13 squadre, fra le quali spiccavano la St. Raphael di Anquetil, la Cynar di Franco Balmamion (vincitore dei due precedenti Giri d’Italia del ’62 e del ’63, in cui peraltro non aveva mai vinto una tappa), la Salvarani di Vittorio Adorni, la Carpano di Italo Zilioli, la Springoil-Fuchs di Franco Bitossi.

Sul “Corriere dei Piccoli”, prima della partenza, il Giro era presentato così: «Sabato 16, da Bolzano, scatta il Giro di Italia. Chi vincerà? Un favorito c’è, si alza decisamente sopra gli altri, impone i suoi diritti in partenza: ma è straniero, purtroppo, si chiama Jacques Anquetil. Ha già vinto quattro Giri di Francia ed un Giro d’Italia, quest’anno ha apertamente dichiarato di voler tentare la conquista che solamente al grandissimo Coppi (per ben due volte) riuscì in passato: vincere nella stessa stagione Giro d’Italia e Tour de France. Ci riuscirà? La parola passa ai nostri corridori, sempre ricchi di molte promesse, mai di risultati concreti. No, si parla solo degli Adorni, dei Taccone, dei De Rosso, dei Balmamion, ma – per rimanere ai “giovani leoni” – anche di Zilioli, che quest’anno non è ancora riuscito a ripetere le esaltanti imprese della passata stagione. Ce la faranno? Esploderanno improvvisamente? Oppure ci porteranno una delusione in più?».

I pronostici non furono smentiti (purtroppo per i tifosi italiani) e a vincere fu il campione francese Jacques Anquetil, che si era già imposto nel Giro del 1960.

Anquetil era nato in Normandia a Mont Saint Agnan nel 1934; suo padre era un benestante proprietario terriero e coltivatore di fragole.

Biondo, bello, con gli occhi azzurri, elegante, colto, raffinato, distaccato e fondamentalmente odioso, Anquetil viveva in un castello a La Neuville-Chant d’Oisel (a 25 km da Rouen), che era appartenuto (nientemeno!) a Guy de Maupassant, aveva intorno 170 ettari di boschi e prati e fu da lui chiamato “Villa degli Elfi” (“Parc des Elfes”).

La “Villa degli Elfi” appartenuta a Jacques Anquetil (Normandia)

La “dieta” sportiva di Anquetil era per lo meno singolare: alle undici di mattina non rinunciava mai all’aperitivo con whisky e Calvados. Sosteneva poi che “per prepararsi a una corsa non c’è niente di meglio di un buon fagiano, dello champagne e di una donna»; dopo ogni gara, poi, andava a cenare nel miglior ristorante della zona, a base di ostriche, champagne ed altri piatti raffinati. Oltre al buon cibo e alle donne, amava le macchine sportive.

Seguendo questa filosofia di vita, “Jacquot” vinse cinque Tour de France, due Giri, una Vuelta, cinque Parigi-Nizza, nove Gran Premi delle Nazioni. Fu inoltre recordman dell’ora, dato che era un cronoman straordinario.

Jacques Anquetil (1934-1987)

E proprio a cronometro, nella 5a tappa del Giro del 1964 da Parma a Busseto (50 km), Anquetil prese la maglia rosa strappandola al nostro Aldo Moser e da lì la portò fino all’arrivo finale a Milano, senza più vincere nessuna tappa. In montagna si limitò a difendersi e a controllare gli avversari: nel grande tappone da Cuneo a Pinerolo (20° tappa) lasciò fuggire Franco Bitossi, che staccò di 1’58’’ il gruppo dei migliori ma era fuori classifica; Anquetil riuscì così a mantenere la maglia rosa.

La classifica finale fu: 1° Jacques Anquetil in 115h10’27’’; 2° Italo Zilioli a 1’22’’, 3° Guido De Rosso a 1’31’’.

I miei appunti sul Giro del 1964; avevo allora 10 anni

I tifosi francesi non amarono molto Anquetil, soprattutto per via del suo carattere di freddo calcolatore; gli preferivano nettamente il suo generoso avversario, Raymond Poulidor (affettuosamente chiamato “Pou Pou”), che però fu sistematicamente e perennemente sconfitto dal campione normanno.

Di Anquetil si ricorda la “scandalosa” vita privata: a soli 18 anni si invaghì di Janine Boeda, di sei anni più grande di lui, moglie del suo medico e già madre di due bambini, Annie e Alain.

Anquetil e Janine

Una sera d’estate, in Costa Azzurra, fuggì con lei e la portò a vivere nel suo già ricordato castello in Normandia. Inizialmente la relazione fu tenuta segreta, perché in quei tempi l’adulterio poteva comportare conseguenze penali (così avvenne anche in Italia per la relazione fra Fausto Coppi e la “Dama bianca” Giulia Occhini).

Infine nel 1958 Jacques e Janine (da lui chiamata “Nanou”), dopo il divorzio di lei, si sposarono; siccome però lei non poteva più avere figli, gli promise di “passargli” la figlia Annie appena avesse compiuto 18 anni: fu così che, nove mesi dopo lo scoccare della maggiore età, nel 1971, Annie diede ad Anquetil una figlia di nome Sophie, che fu fatta passare per figlia di Janine.

Il curioso (?!) “ménage à trois” proseguì sinché Annie abbandonò il castello; Anquetil allora si consolò con Dominique, moglie di Alain (l’altro figlio di Janine e fratello di Annie): anche costei cadde vittima del fascinoso campione e gli cadde tra le braccia… Da questo ennesimo amore “scandaloso” nacque il piccolo Christopher nel 1986.

Un anno dopo, a soli 53 anni, Jacques Anquetil morì a Rouen per un tumore allo stomaco. Pochi giorni prima di morire ricevette la visita del suo grande rivale Raymond Poulidor: “Arrivi secondo anche questa volta”, gli sussurrò. Al suo funerale furono presenti tutte le sue donne.

Il bello è che Sophie narrò tutta questa storia in un libro (“Pour l’amour de Jacques”, 2005), scrivendo: «Sono stata figlia di due mamme che hanno vissuto per quindici anni sotto lo stesso tetto. Mia nonna Nanou (Janine), mia madre Annie, mio padre Jacques, io li amo tutti da sempre e questo amore continuerà. Non ho niente, davvero niente da rimproverare loro. Non gliene voglio. Mi hanno dato la forza di essere quello che sono nella mia vita, con passione e amore. Io li amo tutti, da sempre».

Tornando a sessant’anni fa, ricordo che Anquetil in quello stesso 1964 vinse anche il Tour.

Ma l’anno dopo la musica cambiò: tra i miei ricordi ciclistici più cari c’è infatti il leggendario Tour de France del 1965, vinto sorprendentemente dal nostro Felice Gimondi, appena ventiduenne. Io seguii quel Tour alla radiolina, villeggiando in campagna vicino Sòlanto e non dimenticherò mai la sorpresa e la gioia dei tifosi italiani (e di me in particolare) per le imprese di questo giovane campionissimo (che ebbe poi nella sua carriera la sfortuna di incappare in un rivale “mostruoso” come il belga Eddy Merckx).

Felice Gimondi vince il Tour de France (1965)

In conclusione, vorrei sottolineare come il ciclismo sia stato per tanti anni, dopo la II guerra mondiale, lo sport più amato dagli Italiani, ancor più del calcio; come ha scritto Aldo Cazzullo, “il ciclismo era lo sport nazionale; rappresentava la prima occasione di riscatto per un Paese umiliato”. Basti ricordare l’episodio assai noto della tappa alpina del Tour del 1948 vinta trionfalmente a Briançon da Gino Bartali, che distrasse il Paese in un momento drammatico come quello dell’attentato a Palmiro Togliatti.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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