Ieri sera, cenando in un arioso locale all’aria aperta in città, ho letto nel menu “Trancio di lampuga in olio cottura con caponata” (prezzo 18€).
Incuriosito, ho fatto ricorso all’enciclopedia ambulante di Google per scoprire che la “lampuga” equivale a quello che comunemente si chiama “capone”.
Io il capone l’acquisto spesso dal mio forzuto pescivendolo (si chiama Isgrò, dal greco ἰσχυρός “forte, vigoroso”), a prezzi stracciatissimi. Ieri ho imparato che ha molti nomi: oltre che “capone” e “lampuga”, è anche “corifena”, “pesce settembrino”, “pesce osseo pelagico” e (all’estero) “Dorado” e “Mahi-mahi”.
Qui a Palermo, inutile dirlo, questo pesce si chiama “capone” e basta; ma nei ristoranti di un certo tono, se lo si propone nel menu, gli si deve cambiare quel nome troppo popolaresco e vagamente gangsteresco, promuovendolo a “lampuga”, affiancandogli un contorno pseudo-altolocato (che in realtà era la non meno popolare caponata) e infine definendo una sua fettina “trancio”.
Il piatto che mi è poi arrivato sul tavolo era in realtà una normalissima fettina (piccola) di capone fritto, verosimilmente ben surgelato.
Se il “trancio di lampuga” è risultato dimenticabile, molto meno dimenticabili mi sono sembrate le formichine che passeggiavano costantemente sul nostro tavolo, incuriosite da lampughe e taglieri e impunemente girovaganti fra posate e bicchieri.
Il cameriere, che apparteneva alla categoria palermitana degli pseudo-spiritosi, diceva che erano comunque “proteine” (forse ha un dietologo tutto particolare) e ne ha schiacciato alcune con le sue dita (povere vittime di un conflitto impari e inutile come tutti i conflitti).
Serata non ottimale dunque e non solo dal punto di vista gastronomico; da bravo ex docente sono però abituato a trovare in ogni situazione ciò che è salvabile: quindi posso definire apprezzabili la location nel verde (oasi miracolosa in mezzo all’asfissiante cemento palermitano) e un’illusione di frescura, ché tale pare (a noi sventurati che viviamo in questa succursale dei tropici) ogni temperatura serale che riesca a scendere al di sotto dei 30°.
E poi sono contento di avere imparato una cosa nuova, confermando il mio motto di sempre (“nulla dies sine linea”, che è anche il nome di questo blog); non a caso, la prossima volta che andrò dal mio forzuto “pescialoro”, potrò chiedergli “una lampuga”. Temo però che mi guarderà come se fossi un marziano…
P.S.: Contrariamente al solito, ieri non ho scattato alcuna foto: non resta dunque un’immagine del capon-lampuga (non mi “sperciava”…); allego quindi un’immagine tratta dal web (che ritrae peraltro una porzione ben più sostanziosa del polinominabile pesce.
Il fresco di sera è sempre più che apprezzabile nella calura estiva. E le vostre conoscenze con il pesce cappone son servite perlomeno ad imparare a diffidare da ristoranti i tanto all’avanguardia, da proporre contorno di formiche….