Continuiamo la rassegna di vocaboli ed espressioni del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.
Eccone altri cinque.
1) “Alluciato” – Non c’entra niente l’alluce del piede; c’entra invece la “luce”. “In siciliano “alluciari” indica “l’effetto che fa il sole quando ferisce negli occhi; e per metafora dicesi di qualunque cosa a cui non resiste la vista” (Mortillaro).
Alluciata” era, una volta, una foto sovraesposta; “alluciato” è chi, recandosi dall’oculista per il controllo, si vede sparare nell’occhio luci accecanti che lo rendono poi orbo per diverse ore.
Nel romanzo “L’altro capo del filo” di Andrea Camilleri (ed. Sellerio, 2016), il commissario Montalbano si trova al porto di Vigàta per garantire la sicurezza nelle operazioni di sbarco dei migranti; l’autista del pullman accende improvvisamente i fari, accecando il povero agente Catarella: «Dalla machina scinnì Catarella che era completamenti alluciato e riparannosi l’occhi con le mano faciva voci».
Ad “alluciato” corrisponde in italiano, più o meno, “accecato”, “abbagliato” o “abbacinato”; questo ultimo termine deriva da “bacino” e indicava un oggetto concavo (di metallo, ceramica o altro), che veniva arroventato e avvicinato agli occhi di una persona durante un supplizio (alla Michele Strogoff, per chi conosce questo libro di Verne…); decisamente, dunque, meglio essere “alluciato” che “abbacinato”…
2) “Ammàtula” – È un avverbio e significa “invano, inutilmente”; deriva dal greco “màtēn” (μάτην), che vuol dire la stessa cosa. Questo valore emerge chiaramente nel seguente passo di Camilleri, che descrive i vani tentativi di Montalbano di sfuggire alla calura di agosto: «Ammàtula, appena susuto, era annato a farisi ‘na natata, ammàtula si era mittuto sutta alla doccia che avrebbe dovuto essiri fridda invece era càvuda pirchì l’acqua nei cassoni supra al tetto era talmente bollente che uno ci potiva calare la pasta, ammàtula si era vistuto cchiù leggio possibile. Appena messo pedi fora di casa, si era dovuto pirsuadiri che tutto sarebbe stato inutile, la calura era una vampa di foco» (“La vampa d’agosto”, Sellerio 2006, p. 165).
Nella conversazione comune, “longo ammàtula” è un ragazzo cresciuto solo nel fisico ma non nel comprendonio; “parlare ammàtula” indica invece uno sproloquiare vano e insensato (anzi, secondo Traina, un “parlar grasso, sboccatamente”).
3) “Cozzo” – Questo termine in italiano indica un urto, uno scontro (ad es. “c’è stato un cozzo fra due auto”) e si collega al verbo “cozzare”. In Sicilia il “cozzo” è invece la nuca, “la parte di dietro del capo” (Mortillaro).
Durante il mio servizio militare negli ultimi mesi ero a Palermo, ove conobbi un maresciallo molto attento al rispetto delle norme; una regola inderogabile, in particolare, prevedeva che i soldati avessero i capelli corti e, in particolare, che avessero la “sfumatura alta” sulla nuca, lasciandola del tutto scoperta. Quando qualche trasgressore gli compariva davanti, il maresciallo gli scriveva un severo biglietto di punizione con la seguente motivazione: “deteneva il cozzo sporco” (e vi lascio immaginare quali fioriti e sarcastici commenti essa potesse suscitare…).
Va detto che “cozzo” indica anche l’estremità di un filoncino di pane; anzi il “cuzziteddu” per alcuni è la parte più buona, perché più croccante.
4) “Della bella” – Non è un complemento di specificazione riferito a una donna attraente; si usa, invece, in unione con i verbi “dormire, addormentarsi” per indicare un sonno profondo. “Della bella”, quindi, assume il valore avverbiale di “bene”, se non “benissimo”.
Sempre nel romanzo “L’altro capo del filo” Camilleri descrive così il sonno profondo di Livia, l’eterna fidanzata di Montalbano, che dorme accanto a lui: «Livia durmiva della bella allato a lui. Dalla finestra trasiva la luci splàpita del primo matino» (pp. 11-12).
Quando qualcuno dorme “della bella” è difficile e inopportuno svegliarlo; potrebbe ridestarsi bruscamente e dimostrarsi (per dirla sempre in “camillerese”) “insitato sull’agro”, cioè brusco e scortese.
5) “Magari Dio” – L’interiezione “magari” deriva dal greco, ove “makàrios” (μακάριος) significa “beato, felice”; ma il semplice “magari” in siciliano sembra insufficiente ad esprimere pienamente un fervido auspicio. Allora, dalle nostre parti, quando si desidera fortemente qualcosa, a “magari” si aggiunge l’invocazione-citazione di Dio: “magari Dio potessi vincere all’enalotto!”, “magari Dio mio figlio trovasse subito lavoro!”. Insomma “magari Dio” corrisponde a un “Dio lo voglia”, a un “inch’Allah” islamico.
Nel romanzo “Le ali della sfinge” (Sellerio, 2006) Camilleri mette l’espressione in bocca a Montalbano, che si augura ardentemente di potersi liberare di un’indagine fastidiosa: «E macari Dio si scoprisse che l’omicidio è avvenuto a Borgina! […] Te lo sei scordato che Borgina dipende dal commissariato di Licata? In questo caso l’indagine passerebbe a loro» (p. 76).
La curiosità dell’interiezione “magari” è che essa, almeno nella Sicilia orientale, diventa una congiunzione con il valore di “anche”: “ci vegnu macari iu” vuol dire “vengo anch’io” (se poi gli si risponde “no, tu no” è un altro paio di maniche…).