Continuando la rassegna dei post che ho pubblicato l’anno scorso su Facebook a commento della pandemia in corso, ne presento qui altri tre.
Il primo risale al 16 aprile 2020 e si intitola “Il ritorno di Don Ferrante e Diceopoli”. Partendo da una notizia del quotidiano “Repubblica”, che citava il caso di un ex imprenditore palermitano ribelle alle regole anticontagio, che era riuscito a farsi multare cinque volte in cinque giorni per le sue trasgressioni, paragonavo questo pervicace personaggio a due ricordi letterari: il manzoniano don Ferrante, tenacemente incredulo nei confronti dell’epidemia di peste, e l’aristofanesco Diceopoli, individualista al punto di fare per conto suo la pace con il nemico mentre tutta la sua città era in guerra.
Segue un puntuale elenco delle contraddizioni eclatanti nelle notizie, nelle informazioni, nelle comunicazioni, con un senso crescente di sbandamento e incertezza. Intanto ci si preparava a una vagheggiata “fase 2”, ancora di là da venire.
16) 16.04.20
IL RITORNO DI DON FERRANTE E DICEOPOLI
Su “Repubblica” di oggi, edizione nazionale (nientemeno!) assurge agli onori della cronaca il signor Domenico Finazzo, ex imprenditore palermitano sessantaduenne. Perché? Perché è un vero e proprio ribelle, che ha deciso pervicacemente di infischiarsene delle regole ferree anticontagio. Si è quindi recato più volte sulla spiaggia di Mondello a godersi il sole primaverile, diventando contestualmente un “recordman di multe”: ben cinque multe da 300 euro l’una in cinque giorni.
Ma lui, “fresco e pettinato” come si dice dalle nostre parti, non perde il suo sorriso beffardo e accoglie nella sua villa a Passo di Rigano l’intervistatrice (rigorosamente dotata di mascherina) con un’affermazione perentoria: “È inutile, ormai il coronavirus è stato sconfitto”. A suo parere, è doveroso ribellarsi a “prescrizioni assurde”, sicché – sia pure a pagamento – non intende “rinunciare al mare e al sole”. Del resto, la sua fiducia è granitica: “Sto benissimo, sono immune a quel morbo. Il virus non mi attacca. Sono un uomo libero e voglio continuare a fare ciò che voglio. Quando guardo il mare mi rilasso”.
E dire che per mandarlo via dalla spiaggia è intervenuto addirittura un elicottero dei carabinieri; i militari lo hanno costretto – mischinazzo – ad allontanarsi avvolto nel suo telo da mare per difendersi “dal vortice di sabbia provocato dalle eliche dell’elicottero”.
La giornalista insiste e chiede: “Ma si rende conto che dovrà pagare oltre 1.500 euro per una tintarella che poteva prendere ai bordi della piscina della sua villa?”. Finazzo risponde, serafico: “Vivo di rendita, posso permettermelo. Ero titolare di un supermercato che poi ho chiuso. La piscina, il cemento, sono un’altra cosa. A me piace la sabbia e il mare”.
Per la mia maledetta e non pensionabile deformazione professionale, a me questo curioso personaggio – “si parva licet componere magnis” – ricorda due celebri personaggi della storia letteraria.
Uno è il don Ferrante manzoniano, dotto e pervicace negatore del contagio della peste milanese del 1630. In base a inoppugnabili elucubrazioni filosofiche di ascendenza aristotelica, don Ferrante dimostra come il contagio e di conseguenza la peste non esistano. Il bello è che in un primo tempo ottiene anche ascolto, giacché – dice Manzoni – “non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi”. Poi, quando il contagio dilaga, si mantiene pervicacemente fedele alle sue convinzioni negazioniste, sicché “non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”.
L’altro personaggio è l’anziano contadino Diceopoli (il “cittadino giusto”), protagonista della commedia “Gli Acarnesi” di Aristofane (425 a.C.). Costui, stanco di vedere da anni i suoi raccolti distrutti dalla guerra del Peloponneso, stabilisce di stipulare una pace “separata” con Sparta, cioè una tregua trentennale personale, individuale, per godersi la vita, alla faccia dei suoi concittadini ancora alle prese con la guerra. […] La vicenda paradossale raggiunge momenti esilaranti, sia quando Diceopoli riprende (lui solo) le attività commerciali, con una sua FASE 2 o 3 immediatamente operativa, sia nel finale, quando vengono contrapposti il generale Lamaco che parte per la guerra e il nostro Diceopoli che invece si sollazza con due ragazze.
Che splendida utopia, quella di vivere senza regole, anzi fabbricandosi le regole a proprio piacimento, senza rendere conto a nessuno! Che bello impiparsene dell’OMS, di Borrelli e Locatelli, di Conte, del mondo intero e vivere “secondo natura”, liberamente, in una dimensione fra l’onirico, l’anarchico e l’hippy!
Del resto, direbbe il nostro bagnante, chi ci capisce più niente?
Il vaccino arriva fra un anno? No fra tre mesi, no non arriverà mai, no non si sa. I contagi aumentano e i morti pure? No, ma va meglio.
C’è la task force di Colao, quello di Vodafone, al lavoro? Sì, ma (vedi “Corriere della Sera” di oggi) la sua task force si chiede “Noi che ci stiamo a fare?”, dato che ad es. la Lombardia vuole decidere autonomamente modi e tempi della riapertura.
Ah allora la Lombardia riapre? No, dice Fontana, “sono stato male interpretato” (risposta che consiglio di utilizzare in ogni contesto; funziona sempre).
Le librerie sono aperte? “Ah allora ci posso andare anche se abito a 10 km di distanza?” “No, non puoi, dice Musumeci che può uscire una persona alla volta una volta al giorno per necessità impellenti” “Ma io ho impellente voglia di leggere! Non ho mai letto un libro in vita mia, ma ora voglio leggere, arricchirmi culturalmente, mai avuto una sete simile di cultura!”.
L’ospedale-modello di Rho è pronto? Sì ma è deserto, ci sono 53 letti pronti e solo 8 occupati da pazienti; è costato 26 milioni, ma va bene così.
Le scuole non riaprono? Ma in Francia e Germania sì e comunque non si sa, prima si devono creare gli spazi per il distanziamento sociale (si dovrà passare dalle “classi pollaio” alle “classi contingentate”); seguiranno istruzioni ovviamente dopo aver sentito il comitato tecnico-scientifico (leggi: dopo che medici e scienziati riusciranno a cavare un ragno dal buco della totale ignoranza di questo virus e delle relative sue cure).
Stanno preparando la app da installare sugli smartphone per tracciare i movimenti delle persone e i rischi di contagio? Sì, ma la app sarà facoltativa; e comunque se togli il Bluetooth diventerai irreperibile!
In cotanta confusione, i Diceopoli e i don Ferrante proliferano pericolosamente: già un paio di settimane fa in corso Olivuzza un fruttivendolo ambulante proclamava “Ci abbastò” e riapriva autonomamente la sua attività (in nero).
Ah, ma continueranno le multe; e siccome non tutti i multati sono facoltosi come l’incallito bagnante palermitano, forse non tutti potranno infischiarsene altrettanto. Intanto la fase 2 si avvicina: preparate la maschera, attrezzatevi per le 4 D (distanziamento – dispositivi di protezione – digitalizzazione del lavoro – diagnosi tempestiva). Il mondo del 3 D (anche quello!) è già un ricordo del passato.
Il 18 aprile 2020, nel post “Locatelli dixit”, tornavo ad occuparmi del sibillino linguaggio ermetico del prof. Franco Locatelli, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità e delegato, nella quotidiana conferenza –stampa informativa, a “chiarire” (sì, vabbè…) la situazione. Dopo qualche doverosa citazione di alcune “perle” espressive del professore, valutavo la situazione di palese “disagio” che traspariva dalla conferenza-stampa: e non a caso era stato appena annunciato che non sarebbe stata più quotidiana, ma bisettimanale (e questo anche se la situazione non accennava a migliorare: 575 morti nelle ultime 24 ore; il totale, in nemmeno due mesi, era già di 22.745 deceduti).
17) 18.04.20
LOCATELLI DIXIT
Ieri pomeriggio verso le 18 si è tenuta la consueta comunicazione dei dati relativi all’epidemia dalla sede romana della protezione civile. All’inizio il dott. Borrelli ha fornito i dati del giorno: casi attuali 106.962 (+355); dimessi/guariti 42.727 (+2563, +6,4%); ricoverati in Terapia Intensiva 2.812 (-124, -4,2%); totale casi 172.434 (+3.493, +2,1%); deceduti (citati sempre per ultimi) 575 nelle ultime 24 ore, per un totale di 22.745 (+2,6%). Poi Borrelli ha passato la parola al prof. Franco Locatelli, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità.
Ho già avuto occasione di rilevare che, fatto salvo l’indubbio valore professionale del professore e il suo intenso impegno in questo periodo difficile, esiste un oggettivo problema di “comunicazione” da parte sua. Questa mia affermazione, si badi bene, va chiarita: in un convegno medico, in una situazione istituzionale, in una riunione di esperti, un certo stile e un certo lessico sono doverosi, corretti e anzi auspicabili; ma di fronte a milioni di spettatori, che hanno diritto a immediatezza e chiarezza, a risposte semplici ed efficaci di fronte ai tanti gravi problemi del momento, ci si aspetterebbe un altro tipo di approccio.
Glissando sul tono di voce di Locatelli (che ahimè contribuisce ulteriormente alla carenza comunicativa, giacché è un tono monotono, frammentato, quasi sillabato, privo di ogni scatto emotivo), cito qualche esempio dalla “comunicazione” di ieri.
Anzitutto il professore si è compiaciuto della “efficacia delle misure intraprese in termini di distanziamento sociale, di lockdown per contenere la diffusione epidemica” (cioè facciamo bene a stare a casa per non beccarci il virus).
Poi ha immediatamente dirottato il discorso sul tema dell’imminente giornata della donazione di organi e tessuti; infatti, ha detto, i numeri di questi giorni “hanno artigliato le nostre coscienze e le nostre sensibilità” (bello, devo dire, questo termine icastico, “artigliare”). Tali numeri, ha proseguito Locatelli, “debbono indurci a riflettere su quella che è la cultura della donazione di organi, cultura della donazione che non è mai sufficientemente promossa e che deve permeare le coscienze di ognuno di noi perché con la donazione di ognuno si possono riallacciare fili esistenziali che altrimenti rischierebbero di andare irrimediabilmente perduti”.
Come come? Alt, rileggiamo: “con la donazione di ognuno si possono riallacciare fili esistenziali che altrimenti rischierebbero di andare irrimediabilmente perduti”. Traduco alla carlona: donando organi si evita che molte persone muoiano, quindi la morte è la “perdita irrimediabile di un filo esistenziale”. Definizione degna di un filosofo escatologico, decisamente.
Il professore è tornato poi al tema principale passando a parlare dei test sierologici; ha provato quindi a riassumere gli “aspetti che pertengono alla realizzazione dei test sierologici”. L’obiettivo di tali test sarà “la determinazione della percentuale di persone che risiedendo in Italia sono entrate in contatto o – se preferite – sono state contagiate da SARS-CoV-2 e COVID-19”; Locatelli ha comunicato dunque che sono state fornite al commissario Arcuri indicazioni solide e affidabili su questi test. Ha fatto poi in proposito il seguente annuncio: “nelle prossime ore verrà resa pubblica una ‘call’ per tutte le aziende, tutti gli interlocutori”.
Una call? Confesso che io avevo dapprima capito “una colla” e mi ero chiesto se questa colla potesse risolvere i nostri problemi sierologici. Poi mi sono documentato e ho letto ad es. che in campo scolastico il Miur ha pubblicato due “call” per sostenere la didattica a distanza, per contenere il Coronavirus. Allora si dice così, nella nostra Italbritannia! Del resto siamo in pieno lockdown… Bisognerà fare il “callo” anche alle “call”…
Ma non basta; prendete fiato e ascoltate il successivo chilometrico periodo locatelliano (che secondo me sarebbe da assegnare come esercitazione di analisi logica agli alunni delle scuole): “la call sarà aperta per cinque giorni, dopo di che un ‘panel’ identificato dal commissario Arcuri allo scopo con [sic!] competenze tra loro complementari procederà all’identificazione del test che verrà selezionato per la conclusione di questo studio di sieroprevalenza su un campione di 150,000 residenti in Italia selezionati in collaborazione e con il contributo di ISTAT in funzione del genere di fasce di età, sei fasce di età di rappresentazione regionale perché ci aspettiamo diversi tassi di sieroprevalenza nelle differenti regioni e anche profili lavorativi”.
Ce l’abbiamo fatta, siamo arrivati in fondo al periodo. In tutto questo ci siamo un po’ persi il “panel”, che non è (come un palermitano potrebbe ipotizzare) il pane e panelle, bensì un procedimento di raccolta a carattere continuativo di informazioni statistiche eseguito su un campione rappresentativo. E comunque, ha proseguito Locatelli, “deve essere ben chiaro (!!!!!) che questo studio di sieroprevalenza verrà condotto in collaborazione con le regioni”.
L’intervento del professore si è chiuso con un elogio di AIFA (l’Agenzia italiana del farmaco, ma io dapprima avevo capito Haifa città di Israele…). AIFA infatti si è fatta “garante di quanto inerisce alla farmacovigilanza dell’elaborazione di linee guida per il trattamento dei pazienti al di fuori degli studi clinici”.
Ultima osservazione del professore è stata la constatazione che al Sud Italia il contagio è stato ben contenuto, “dato solidamente corroborato dall’evidenza di numeri”.
Devo dire che sono esausto. Mi sento come Manzoni di fronte al “dilavato” manoscritto del suo Anonimo: “Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?”.
E comunque, al di là delle modalità comunicative, anzi non-comunicative, di Locatelli e Borrelli, al di là del tono di voce, di una certa retorica neo-asiana, delle divagazioni, resta il concreto sospetto che questo rituale delle 18 da via Vitorchiano sia stato a un certo punto vissuto dalla Protezione Civile e dal comitato scientifico con un certo disagio. E forse non a caso Borrelli ieri ha comunicato che l’aggiornamento in conferenza stampa sull’emergenza Coronavirus non si terrà più giornalmente, ma soltanto due volte a settimana: il lunedì e il giovedì saranno i giorni designati per l’aggiornamento sull’andamento del contagio.
E questo perché? Perché va meglio? Non si direbbe: perché se è vero che in molte regioni si è in linea con le percentuali “ragionevoli” di altre zone (ad es. della Germania), al Nord Italia e soprattutto in Lombardia così non è affatto. Cinquecento e passa morti al giorno (e vorrei rimandare al mio post di qualche giorno fa che si chiedeva “dove muoiono i morti?”) non sono certo segno di un cessato allarme.
Speriamo almeno che lunedì prossimo i giornalisti presenti in conferenza stampa riescano a porre tutte le domande opportune e giuste. Sempre che a queste domande, che sono le domande di tutti noi, ci siano attualmente risposte.
Chiudo per oggi con “Il vecchio e il rider”: così, sulla falsariga di Hemingway, il 23 aprile 2020 intitolavo un post in cui parlavo dell’ormai rituale attesa, il sabato sera, durante il perdurante lockdown, dell’arrivo del “rider” che portava a domicilio le pizze.
E facevo il bilancio di quel primo lungo periodo di isolamento, con la triste modifica delle abitudini rituali e la forzata adozione di nuovi ritmi di vita.
Non mancava qualche disquisizione sulle pizze del giorno d’oggi, “quanto mai creative nella fantasmagorica varietà degli attuali impasti (kamut, tumminia, perciasacchi, ecc.) e soprattutto nella complessità caleidoscopica degli ingredienti”.
18) 23.04.20
IL VECCHIO E IL RIDER
Non c’entra Ernest Hemingway, ovviamente, per il quale il vecchio Santiago aveva semmai un viscerale rapporto con il mare e dove l’ambita preda era il gigantesco marlin, pescato e poi perduto per strada, divorato dagli squali.
Qui l’ambita preda, nel mio caso, è la pizza; e al mare si sostituisce, per questo Santiago che sto diventando, l’attualissima figura del “rider”, cioè uno di quei giovanotti che scorrazzano in motorino per la città portando a domicilio la spesa. L’attesa del rider è uno dei momenti che vivacizzano, in genere a fine settimana, la vita monotona dei miei arresti domiciliari.
Devo premettere che io non sono mai stato un gran patito della pizza, forse perché la mia ghiottoneria è a 360° e la pizza è solo un aspetto marginale, per me, di una buona cena. A me si potrebbe adattare la descrizione che Camilleri fa del commissario Montalbano: «era sempre stato goloso e ingordo fin da picciliddro, tanto che suo patre lo chiamava “liccu cannarutu” che significava esattamente goloso e ingordo».
E tuttavia, al rituale della pizza del fine settimana mi ero piegato gradualmente; e paradossalmente, oggi che questo rituale, come tanti altri, è venuto meno, devo dire che mi manca.
Mi manca perfino il rituale appuntamento con gli amici, con le consuete fluttuazioni di orario che mi hanno sempre creato un certo disagio: io sono nato ad altre latitudini, dove “alle otto” significava stupidamente “alle otto”; trasferito qui, ho dovuto constatare che, se essere puntuale è qui grave colpa, essere come me un tenace anticipatario è addirittura un reato. Le mie bibliche attese davanti alle pizzerie sono sempre state per me occasione di lunghe e proficue meditazioni esistenziali; questo perché quando sentivo dire “ci vediamo otto-otto e mezza” ritenevo sempre, colpevolmente, di dovermi presentare “in loco” alle otto, senza tener conto del fatto che la suddetta fascia a Palermo indicava in realtà il periodo successivo alle 20,30, con confini che si estendevano sino alle 21 e oltre.
Tuttavia a queste oscillazioni temporali non risulta esente neanche la pizza “con rider”. Infatti, se prenoto la pizza per la fascia oraria 19,30-20, arriva alle 21. L’attesa è dunque lunga: per ingannarla, mi affaccio alla finestra e ho modo di osservare i vari cani che portano a spasso i loro padroni, i pochi diffidenti passanti mascherati, i piccioni ridiventati padroni del mondo desertificato.
In alternativa seguo sul PC lo stato dell’ordinazione: l’ordine infatti passa attraverso varie fasi, scandite da alcuni bottoncini verdi che si illuminano gradualmente. Si passa dall’ordine “ricevuto” (come a dire: siamo a niente) alla fase di “preparazione” (che suppongo significhi che il pizzaiolo si chieda “uora a cu tocca?”), poi di “elaborazione” (“mettemu sta pizza ‘nto furnu”) e infine di “consegna” (“dùnaci sti pizzi ‘o picciottu”). A questo punto, nel display, compare l’immagine radiosa di una rossa motocicletta stilizzata che, partendo dalla pizzeria, si muove verso la mia abitazione.
Oh gioia inerrabile, questo vedere l’iconcina del rider avvicinarsi alla meta (mai per la strada che farei io ovviamente)!
L’attesa diventa spasmodica; verrebbe quasi da inneggiare liricamente: “Un bel dì, vedremo / levarsi un fil di fumo / sull’estremo confin di strada / e poi il rider appare. / E poi la pizza è rossa, / entra in portineria, olezza il suo saluto. / Vedi? È venuto! / Io non gli scendo incontro, io no. / Mi metto là sul ciglio del pianerottolo / e aspetto altro tempo / (sta acchianannu con l’ascensore) / e non mi pesa la lunga attesa. / Chi sarà? Chi sarà? / E come sarà giunto? (in motorino) / Che dirà? Che dirà? (“Trenta euro, prego”). / Chiamerà il mio nome dalla lontana. / Io senza far risposta / non resterò nascosto. / Un po’ per celia, / un po’ per non morire di fame / al primo incontro…/ Io con sicura fede lo aspetto”.
Finalmente dunque il ragazzotto mascherato arriva, consegna i cartoni delle pizze, incassa il denaro e riparte. Benedetta, sacrificatissima categoria dei rider! Penso che spesso siano studenti, costretti ad inventarsi un lavoro; penso ai sacrifici che fanno, a come corrono avanti e indietro pressati dagli orari, dalle impellenti e sempre più numerose consegne… Insomma, onore ai rider!
Ed eccoci finalmente, io e famigliola, davanti ai tre cartoni con le pizze, quanto mai creative nella fantasmagorica varietà degli attuali impasti (kamut, tumminia, perciasacchi, ecc.) e soprattutto nella complessità caleidoscopica degli ingredienti.
Oggi una pizza che si rispetti deve avere una carta d’identità dettagliata: una “Parma” è “crudo di parma riserva 18 mesi, mozzarella di bufala di paestum, rucola, scaglie di grana, burrata di Corato”; una “Due Sicilie” (i nostalgici dei Borboni sono duri ad estinguersi…) è con “datterino giallo campano, datterino rosso siciliano, fior di latte campano, tuma siciliana, acciughe di Cetara e Aspra”; per non parlare delle pizze “esagerate”, come una “Maialina” (patate, lardo o pancetta di maialino nero dei nebrodi, mozzarella di bufala affumicata di Paestum, olio, rosmarino fresco) o una “Rianata” (pomodorini, tuma, acciughe, mollica di pane fresco, prezzemolo, origano selvatico, olio extra vergine di oliva all’aglio).
Io in genere propendo per la banalissima “Napoli” (e anzi ricordo che in pizzeria, dopo aver vanamente affaticato la vista e il cervello a leggere gli elaboratissimi menu, mi buttavo quasi sempre sulla mia unica certezza…).
A tavola ovviamente aggiungiamo una coca o una birra (magari una di quelle artigianali che fioriscono oggidì a tinchitè in tutta l’isola, con il meritorio compito di far salire di almeno 15 euro il conto…).
Dunque la serata è salva, le tradizioni sono rispettate, ci sentiamo quasi in pizzeria. Sì, perché – lo leggevo ieri – fra le micidiali controindicazioni di questa prolungata prigionia c’è l’assuefazione alla reclusione, l’adattamento rassegnato, il “non farci più caso”. Se ripensiamo a come avevamo reagito all’inizio, c’è proprio da rilevare una svolta radicale nelle nostre abitudini e nelle nostre capacità di resilienza.
Un’ultima riflessione. Direte voi: ma la pizza perché non ve la fate da soli a casa? Molti (anche per motivi economici o per fisime igieniche) optano per questa soluzione “fai-da-te” e vedo su Facebook trionfanti immagini di “amici” che mostrano orgogliosi le loro pizze, spesso indubbiamente appetitose, frutto dei loro sforzi “autogastronomici”. Fra l’altro non mancherebbe qui l’arte di una sopraffina e abilissima cuoca… A me però piace l’idea che un pezzo di mondo perduto venga da me, a ricordarmi che la vita esiste ancora, che potrà forse esistere di nuovo. E poi, a sti mischinazzi di rider, il lavoro dobbiamo garantirglielo, no?