Nel IV episodio dell’Antigone di Sofocle il re Creonte ordina alle guardie di portare via la giovane, che è stata colta in flagrante mentre dava sepoltura al cadavere del fratello Polinice, violando così l’editto regale. Antigone sarà rinchiusa in una grotta dove finirà i suoi giorni.
La pena della lapidazione, prevista in origine per l’eventuale trasgressore, è stata commutata in quella della “sepoltura”. Perché? Secondo Eva Cantarella, “La ragione sta proprio nel fatto che Antigone è una donna. La lapidazione è esecuzione pubblica, collettiva, ha luogo nello spazio aperto della città. L’esecuzione riservata ad Antigone, invece, è tale da portarla a morire in un luogo segreto, destinato a rinchiudersi su di lei per sempre, inesorabilmente e definitivamente” (I supplizi capitali in Grecia e a Roma, p. 28). Ad Atene l’eventuale esecuzione capitale delle donne avviene nel chiuso delle mura domestiche, al riparo da sguardi indiscreti: “In vita, come in morte, questo – e non altro – era il territorio delle donne: che i modi della loro morte divenissero supplizi cittadini era semplicemente impensabile”.
Consapevole della morte imminente, Antigone intona l’ultimo lamento: priva degli affetti familiari, senza aver provato le gioie dell’amore e della maternità, si avvia alla tomba, che sarà per lei “dimora eterna” (vv. 891-892) e “talamo nuziale” (νυμφεῖον, v. 891).
A questo punto, però, la ragazza si rivolge idealmente al fratello morto, pronunciando parole sconcertanti: “Eppure, io ti resi onore giustamente, per chi ha senno. Infatti mai, né se fossi divenuta madre di figli, né se fosse stato il cadavere di mio marito a corrompersi, io mi sarei assunta quest’ufficio contro il volere dei cittadini. E in forza di qual principio lo affermo? Morto il marito, ne avrei avuto un altro; e da un altro uomo avrei avuto un figlio, se quello mi fosse mancato: ma ora che mia madre e mio padre sono in fondo all’Ade, non è mai più possibile che mi nasca un fratello. Eppure, poiché secondo questa legge ti ho particolarmente onorato, è sembrato a Creonte che questa fosse una colpa e che io abbia osato una cosa terribile, fratello mio” (vv. 904-915, trad. R. Cantarella).
Questi versi hanno creato molte perplessità fra i critici moderni: la dichiarazione di Antigone che avrebbe rinunciato a seppellire un figlio o il marito, ma non avrebbe potuto farlo con un fratello, è sembrata a molti un’interpolazione; Goethe addirittura si augurava che un filologo dimostrasse che tali versi erano spuri.
Le argomentazioni di Antigone sono state giudicate intellettualistiche o, al contrario, irrazionali e poco adatte al carattere del personaggio. In particolare, il fatto che la ragazza dichiari che la violazione del decreto pubblico non sarebbe stata ammissibile in altri casi, neppure se si fosse trattato di un marito o di un figlio, costituisce una sorprendente eccezione rispetto al principio generale del rispetto delle “leggi non scritte”.
Non mancano però elementi che inducono a credere nell’autenticità di questo brano. Anzitutto Aristotele nella Retorica (1417a) cita i vv. 911-912 attribuendoli espressamente all’Antigone di Sofocle. Poi, è importante ricordare un passo assai simile delle Storie di Erodoto (III 118-119) in cui la moglie di Intaferne, potendo liberare uno dei suoi congiunti che erano prigionieri di Dario, sceglie il fratello adducendo le stesse motivazioni di Antigone (“O re, di marito io posso averne un altro se la divinità lo vuole, e altri figli se perdo questi. Ma, non essendo più in vita mio padre e mia madre, un altro fratello non potrei più averlo in nessuna maniera”, III 119, Trad. Izzo D’Accinni).
Con Erodoto, Sofocle ebbe stretti rapporti umani e letterari e non sarebbe questo l’unico caso di convergenza fra i due autori. Ma la presenza dello stesso tema in antiche fiabe indiane e nella novellistica popolare della Grecia moderna induce a ricondurre il tema del “fratello insostituibile” nell’ambito dei “dilemmi parentali” ottimamente studiati da Maurizio Bettini: “Non c’è dubbio che, per operare una scelta all’interno delle varie relazioni familiari, Antigone e la moglie di Intafrene facciano ricorso alla medesima γνώμη, per usare le parole della donna persiana, ovvero al medesimo νόμος, per usare l’espressione dell’eroina tebana. Una γνώμη e un νόμος che si fondano su questo principio incontrovertibile: ‘i figli e i mariti possono essere rimpiazzati, i fratelli non possono esserlo” (Affari di famiglia – La parentela nella letteratura e nella cultura antica, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 324-325).
Bettini ricorda che simili esempi di survival (“sopravvivenza” antropologica di culture precedenti) sono assai diffusi nel folklore europeo; ad esempio, ricorda un analogo proverbio diffuso nella zona di Crotone: “Mariti mi n’abbrazzu, figghi mi ni fazzu, frati e soru comu fazzu?” (cfr. Affari di famiglia, p. 331).
Antigone dunque lotta e muore per qualcosa di unico, insostituibile, non rimpiazzabile: il fratello.
Secondo Goethe, Antigone possiede “la più sororale tra le anime”; per lui incarna il concetto di sorella.
Il tema del rapporto fratello-sorella sarà centrale nella psicologia, nella letteratura e nella retorica del tardo ‘700 e dell’800: Byron parla della corrispondenza psichica fra fratello e sorella, mentre Shelley sviluppa il tema morboso della passione incestuosa fra i due.
Secondo Hegel, all’interno della famiglia il rapporto tra fratello e sorella è un rapporto privilegiato: i due sono dello stesso sangue (moglie e marito invece no); essi dunque stanno uno di fronte all’altra nella purezza disinteressata della scelta umana libera, con “sangue calmo” poiché “non si appetiscono”. La femminilità stessa, per Hegel, trova la sua più alta espressione e la sua quintessenza morale nella condizione sororale.