Quando ero ragazzo e in estate venivo in vacanza a Bagheria, erano i tempi d’oro del cinema: c’erano ben cinque sale che io ricordo: Capitol, Supercinema, Nazionale, Corso e Vittoria (ex Littorio). Inoltre in estate operavano in zona tre arene: l’Imperia, la Conchiglia ad Aspra e la Paradiso a Santa Flavia (quest’ultima ha ispirato il nome del cinema Paradiso nel capolavoro di Peppuccio Tornatore).
All’arena si andava in genere dopo cena, per trovare più fresco; a quei tempi non era impossibile che anche sulla costa la sera ci fosse “frischiceddu” e occorresse – almeno a partire dal II tempo – un golfino di cotone (come quello che Verdone in un suo gustoso sketch consigliava per la sera a eventuali visitatori del pianeta Marte).
I film proiettati erano riprese della stagione precedente o vecchi classici riciclati o bidoni assoluti. Le sedie erano di ferro, scomodissime; lo schermo era attorniato da case private, con balconi popolati da spudorati spettatori a sbafo o da gente intenta a prendersi il fresco, che parlava impunemente a voce alta creando un colorito e surreale effetto stereo con la proiezione del film.
Cinquant’anni fa, nell’estate del 1971, all’arena Imperia vidi due film: “L’uomo dalla cravatta di cuoio” di Don Siegel con Clint Eastwood (che risaliva al 1968) e un dimenticabile western americano di Robert Sparr, del 1969, intitolato “Meglio morto che vivo”, che aveva tra gli interpreti Clint Walker e il più celebre Vincent Price.
Fra i ricordi legati alle arene, uno risale all’agosto 1969.
Ero in giro per la Sicilia con i miei genitori e i miei cugini; eravamo in sette e viaggiavamo alla ventura, senza alcuna prenotazione (concetto quasi inesistente e superfluo all’epoca), mangiando e dormendo dove capitava.
Ci eravamo trovati dunque a pernottare a Fiumefreddo vicino Catania, alle pendici nord orientali dell’Etna, da un certo Lucio. Era, più che un albergo, una grande abitazione privata con qualche stanza per gli ospiti; ma il proprietario era gentilissimo e ci preparò anche una squisita cena rustica a base di formaggio, pane “cunzatu”, salame e “attuppateddi”, cioè le squisite lumache “col tappo” (chi si “schifìa” a sentire parlare di lumache non sa cosa si perde nella vita…).
Dopo cena, Lucio ci consigliò di andare alla vicina arena per passare la serata. Così ci incamminammo, facendo pochi passi nel paese. Le persone sedute a pianterreno davanti alle porte di casa, a prendere un’illusione di fresco, ci guardavano come extraterrestri (suppongo fossimo i primi turisti a sbarcare su quel pianeta incontaminato).
Il film in programmazione era un tipico esempio del western all’italiana (che allora spopolava), dal titolo intimidatorio e ieratico: “Straniero… fatti il segno della croce”. Era un film dell’anno prima diretto da tale Demofilo Fidani, ex scenografo e sceneggiatore: costui, per non essere da meno di Sergio Leone (che si era inventato lo pseudonimo di Bob Robertson per la prima uscita di “Per un pugno di dollari”), aveva a sua volta coniato per sé – con una specie di anagramma – l’improbabile nome di Miles Deem. L’attore protagonista era tale Charles Southwood (attore californiano che si chiamava davvero così e aveva quindi il merito indiscusso di evocare il ricordo – ingannevole – di Clint Eastwood).
La trama, come si ricava da Wikipedia, era questa: “Un cacciatore di taglie se la prende con la gang di due fratelli che spadroneggiano sulla cittadina di White City. Al suo fianco, uno zoppo con qualche conto da regolare”. Paolo Mereghetti è impietoso nella sua critica, definendo il film “raffazzonato, tra scopiazzature leoniane, invenzioni demenziali e micidiali velleità autoriali”. Basti dire che a un certo punto un pistolero, sparando alle uova, diceva: “Mortacci!”.
Di questo mirabile western, in realtà, non ricordo altro (ci mancherebbe…). Ma ricordo invece benissimo quell’arena improvvisata, con le sedie casalinghe di paglia su un fondo sterrato; c’era uno schermo grigiastro la cui già discutibile luminosità era ulteriormente compromessa dalle luci sparate da una casa vicina (ove una corpulenta famiglia stava finendo di mangiare a tinchité); il pubblico, poi, non era esattamente quello del festival di Cannes… Ma quante risate ho potuto fare quella sera, non è possibile raccontare: avevo quindici anni ed era l’età della risata facile e contagiosa, del “sivo”. Il famoso regista Demofilo Fidani mi perdonerà…