Poeti e zanzare

Le prime ondate di caldo torrido ci stanno restituendo una delle poche certezze che ci restano: quella di ritrovare immancabilmente le nostre compagne fedeli delle roventi notti estive: le zanzare.

Il tormento di questi fastidiosissimi insetti è millenario; per esorcizzarlo, propongo qui tre epigrammi greci di età ellenistica e un sonetto italiano di età barocca.

1) Il carme a Conopio (A.P. V 23) è l’unico epigramma erotico di Callimaco (III sec. a.C.) dedicato ad una donna; gli altri hanno infatti carattere omoerotico. Proprio questo dato ha indotto alcuni a dubitare della paternità callimachea del breve componimento: “Lo stile, l’argomento (nessun altro suo epigramma erotico è rivolto ad una donna), ed alcune peculiarità metriche sono incompatibili con l’attribuzione a Callimaco di questo grazioso epigramma, che andrà piuttosto dato a Rufino” (G. B. D’Alessio, Callimaco – Inni, Epigrammi, Ecale, BUR, Milano 1996, p. 269n.).

Comunque sia, il nome della fanciulla è “parlante”: infatti Konòpion (Κωνώπιον) è diminutivo di kònops (κώνωψ) “zanzara”; equivale dunque a Zanzaretta” e allude forse al carattere petulante e fastidioso della donna.

Si tratta di un “paraklausìthyron” (παρακλαυσίθυρον), genere assai diffuso nell’età ellenistica, che sviluppa il motivo della sofferenza d’amore vissuta dall’amante deluso, escluso dalla casa dell’amata (cfr. lat. exclusus amator) e appostato davanti alla porta chiusa, nell’immancabile contesto di una perturbazione atmosferica, al freddo e al gelo.

Eccone il testo greco seguito da una mia traduzione.

Οὕτως ὑπνώσαις, Κωνώπιον, ὡς εμέ ποιεῖς / κοιμᾶσθαι ψυχροῖς τοῖσδε παρὰ προθύροις· / οὕτως ὑπνώσαις, ἀδικωτάτη, ὡς τὸν ἐραστὴν / κοιμίζεις, ἐλέου δ’ οὐδ’ ὄναρ ἠντίασα. / Γείνοτες οἰκτείρουσι, σὺ δ’ οὐδ’ ὄναρ· ἡ πολιὴ δὲ /αὐτίκ’ ἀναμνήσει ταῦτά σε πάντα κόμη.

Possa tu dormire, Conopio, / così come fai dormire me, / presso questo portico ghiacciato. / Possa tu dormire, donna ingiustissima, / così come fai dormire il tuo innamorato; / io non ottengo nessuna pietà, / neppure per sogno! / I vicini hanno pietà di me, / ma tu neppure per sogno! / Ah, ma la tua chioma bianca / presto ti farà ricordare / tutte queste cose”.

La donna viene chiamata per nome: “Conopio” (Κωνώπιον), cioè appunto “Zanzaretta”. Si tratta di un nome “parlante”, diminutivo di “kònops” (κώνωψ “zanzara”), con allusione al tormento fastidioso che arreca la donna. L’amante le augura dunque di soffrire quello che sta soffrendo lui (vv. 1-2) e la definisce “ingiustissima” (ἀδικωτάτη), con evidente reminiscenza di un carme di Saffo: infatti nell’Ode 1 V. ad Afrodite la dea chiedeva a Saffo chi “le facesse ingiustizia” (Τίς σ’, ὦ Ψάπφ’, ἀδικήει), cioè chi “non ricambiasse – come era giusto – il suo amore”.

Alla “spietata” Conopio (più spietata persino dei vicini) viene ricordata la brevità della giovinezza e del fascino femminile (vv. 5-6): sopraggiunta la vecchiaia, la donna rimpiangerà le occasioni a cui adesso rinuncia. Questo tema conclusivo, per quanto non nuovo (cfr. Teognide vv. 1305-1310) prospetta un ribaltamento della situazione: l’innamorato non appare più affranto, ma inveisce contro l’amata. L’espediente rappresenta un tentativo di rinnovare la tradizione letteraria del “paraklausìthyron”, testimoniando anche il distacco ironico del poeta (maestro di “understatement”) nei confronti del turbamento erotico. 

2) Il riferimento alle zanzare diventa concreto e più ironico in un manieristico epigramma di Meleagro (II-I sec. a.C.); il poeta di Gadara si offre stoicamente (da vero VAPE  umano) ai morsi dei fastidiosi insetti pur di permettere all’amata Zenofila di dormire tranquillamente:

«Stridule zanzare, spudorati sifoni di sangue umano, / mostri alati della notte, un breve sonno tranquillo, / vi prego, consentite che Zenofila dorma: / spolpate, ecco qui, le mie membra. / Ma che serve parlare? Anche quelle belve spietate / godono a scaldarsi sulla sua tenera pelle. / Ancora v’avverto, razza maligna: deponete l’audacia / o conoscerete il peso delle mie mani gelose» (A.P. V 151, trad. Guidorizzi).

3) In un altro epigramma lo stesso Meleagro trasforma la zanzara in “messaggera veloce”, affidandole un messaggio d’amore per la stessa Zenofila, sia pure con l’avvertenza di non ridestare anche l’amante che giace con lei a letto. Se la zanzara riuscirà nell’epica impresa, al suo ritorno meriterà di essere assimilata a Eracle di ritorno da un’eroica fatica.

Come si vede, un piccolo cammeo all’insegna della ricerca del bizzarro e dell’insolito (con tanto di “agudeza” barocca conclusiva).

Ecco il testo: «Vola, vola, zanzara, messaggera veloce, / sfiora l’orecchio a Zenofila, sussurrale: / “Lui è insonne, t’aspetta; ma tu dormi / e hai scordato chi ti ama”. Vola, insetto armonioso, / ma parla piano, non ridestare anche il compagno di letto / eccitando contro di me gelosie dolorose. / Se mi condurrai la fanciulla, o zanzara, ti cingerò / con un vello di leone e ti metterò tra le mani una clava» (A.P. V 152 trad. Guidorizzi).

Eracle

Fra le tante liriche di età moderna dedicate alle zanzare, cito qui un sonetto di Giovan Francesco Maia Materdona, poeta barocco pugliese del ‘600, nato nel 1590 a Mesagne presso Brindisi, autore di “Rime”, membro dell’Accademia degli Oziosi e dell’Accademia degli Umoristi e, dopo l’ordinazione sacerdotale all’età di 47 anni, di scritti edificanti; morì a Roma nel 1650.

Giovan Francesco Maia Materdona (1590-1650)

Eccone il testo: «A UNA ZANZARA – Animato rumor, tromba vagante, / che solo per ferir talor ti posi,/ turbamento de l’ombre e de’ riposi, / fremito alato e mormorio volante; / per ciel notturno animaletto errante, / pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi; / invan ti sforzi tu ch’io non riposi: / basta a non riposar l’esser amante. / Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza / vattene; e incontro a lei quanto più sai / desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza. / D’aver punta vantar sì ti potrai / colei, ch’Amor con sua dorata frezza / pungere ed impiagar non poté mai.»

Il sonetto rientra nella ricerca di “arguzie” (le “agudezas” spagnole) tipica dell’epoca; il poeta crea un parallelismo fra le pene d’amore e le pene determinate dai morsi della zanzara: egli soffre già abbastanza per amore, per cui le punture dell’insetto sono a suo giudizio superflue: “basta a non riposar l’essere amante”; si rivolga semmai, la zanzara, alla donna amata: se la prenda con lei, la costringa a non dormire, punga lei con i suoi aculei colei che la freccia d’oro di Amore (“dorata frezza”) non riuscì a colpire.

Dal punto di vista stilistico si nota il virtuosismo dell’autore, che non nomina mai (se non nel titolo) la zanzara, ricorrendo invece a una serie di abili perifrasi, metafore ed iperboli, realizzando pienamente agli occhi del lettore quella “meraviglia” che è lo scopo fondamentale del poeta barocco (“È del poeta il fin la meraviglia…/ chi non sa far stupir, vada alla striglia», come scriveva Giambattista Marino).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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