Il “Lamento dell’Esclusa”

Uno dei componimenti più suggestivi del periodo ellenistico è il cosiddetto “Fragmentum Grenfellianum”, un carme anonimo pubblicato nel 1896 dal filologo britannico Bernard Pyne Grenfell (1869-1926) in seguito al rinvenimento di un papiro egiziano del III-II sec. a.C. (Lyrica adespota fr. 1 Powell).

La lirica è un esempio di “paraklausìthyron” (παρακλαυσίθυρον), cioè un canto “davanti alla porta chiusa” della persona amata. La cosa insolita è che qui non compare la tipica figura dell’exclusus amator, bensì (con un sorprendente rovesciamento del modulo narrativo tradizionale) una giovane donna abbandonata dal suo innamorato, che si strugge davanti alla soglia della casa di lui. Non a caso oggi il componimento viene in genere intitolato “Il lamento dell’Esclusa”.

Il metro è il docmio (schema base: U—U-), metro “tortuoso” e patetico per eccellenza, già utilizzato nel teatro tragico; la lingua è una “koiné” con molti ionismi.

Ecco il contenuto del monologo lirico.

Anzitutto la donna ripercorre, con accenti accorati, la storia del suo amore. L’intesa era stata inizialmente perfetta, Cipride era stata garante del loro legame: “Di entrambi fu la scelta: / ci congiungemmo, e Cipride è garante / di questo nostro amore”.

L’espressione sembra escludere un vincolo coniugale: in Grecia una donna non poteva scegliersi il proprio marito e l’eros non era elemento indispensabile per i legami matrimoniali, dettati semmai da interessi economici e da accordi familiari. Si è trattato dunque di una relazione libera, una sorta di “foedus amoris” come spesso riscontriamo nell’elegia latina, con entrambi i partner consenzienti, basata essenzialmente sui sensi (“ci congiungemmo”) e benedetta da Afrodite (“Cipride”).

La donna però ricorda poi i baci ingannevoli del partner: “Fu lui che volle la rottura (ἀκαταστασίης εὑρετής), lui / che per primo mi amò” (vv. 7-8). Eros si era impadronito della donna, che non può negarlo. Ella si rivolge allora (con alcune espressioni di origine teocritea, cfr. II 11 sgg.) alle stelle e alla “grande Notte, complice/ del mio amore” (v. 11) chiedendo che la portino da lui; infatti è immenso l’amore che prova.

Il bugiardo “traditore d’anime” (φρεναπάτης, v. 18) compie contro di lei “ingiustizia” (ἀδικεῖ, v. 17), la umilia e tormenta. Il riferimento all’ “ingiustizia” (ἀδικία) deriva dalla lingua della lirica arcaica; era già presente in Saffo, nella celebre Ode ad Afrodite (“chi, o Saffo, ti fa ingiustizia?”, 1 V., 20) ed indicava la mancata corrispondenza dell’amore, che era appunto considerata un’“ingiustizia” inaccettabile perché violava le leggi di Afrodite.

Il partner non volle sopportare il “più piccolo torto” (v. 22), un unico errore occasionale della donna (forse un tradimento con un altro uomo, comunque lucidamente ammesso senza problemi).

Ora la donna si sente impazzire (μέλλω μαίνεσθαι, v. 23), si strugge per la gelosia, si sente sola (“mi brucia l’abbandono”). Chiede allora che lui le lanci le corone di fiori per ornarsene quando sarà sola; le corone, ovviamente, evocano l’ambiente del simposio, luogo notoriamente frequentato dalle etère e quindi scenario di libere relazioni amorose; l’Esclusa, chiedendo per sé le corone di fiori, sembra voler scavalcare le immancabili rivali reclamando i propri… diritti di precedenza. Sicuramente si ha qui un’ulteriore inversione ironica: secondo le consuetudini, infatti, spetterebbe all’innamorato appendere le corone dinanzi alla porta dell’amata.

Subito dopo, però, la donna si rivolge al partner in tono sottomesso: lo chiama “mio signore”, gli chiede di farla entrare, di non lasciarla fuori dalla porta; è perfino pronta a diventare la sua schiava (“voglio essere tua schiava”, ζηλῶ δουλεύειν, v. 28).

La sofferenza dell’Esclusa è immensa: “Amare alla follia dà grande pena” (v. 29); e deplora un amore così esclusivo, che rende folle l’animo: “essere di uno solo toglie il senno, / l’unico amore provoca follia”.  

Il tono cambia ancora improvvisamente, poiché la donna si definisce “implacabile” (v. 33) e minaccia di diventare folle (μαίνομαι, v. 34) al pensiero di dormire da sola mentre lui magari vive nuove relazioni amorose: “impazzirò / a dormire da sola, / a sapere che tu corri da un’altra”.

Al termine, tuttavia, l’esclusa propone di metter fine al dissidio (“al più presto / occorre fare pace”, vv. 37-38); del resto non mancano loro degli “amici” (non meglio precisati; forse i compagni di simposio e le altre etère, che possano fare da mediatori e decidere chi dei due abbia torto).

Il personaggio dell’Esclusa rientra in un ricorrente topos, quello della “donna abbandonata”: è come Arianna lasciata da Teseo, come la teocritea Simeta tradita dal suo amante Delfi, come Didone abbandonata da Enea (in particolare appare rilevante il modello teocriteo).

Più precisamente,  però, la “persona loquens” del Fragmentum sembra rientrare nel tipo della bona meretrix, cioè un’etèra onesta e affettivamente legata a un solo uomo; un carattere che, dalla Commedia Nuova (soprattutto con Menandro) in poi, ebbe poi molta fortuna: la si ritrova in Eroda (nel cui Mimiambo I la mezzana Gillide invano tenta di persuadere Metriche – presumibilmente un’etera fedele all’amante lontano – a concedersi a un altro uomo) e poi nel teatro di Plauto e Terenzio e in alcuni prosatori di epoca successiva (come Luciano, Alcifrone e Aristeneto).

Incertissima è, peraltro, la definizione del genere letterario cui si può attribuire il brano: sicuramente è operativa in esso una commistione fra topoi e motivi tratti dall’epigramma, dal mimo, dalla commedia greca e latina, dall’epistola erotica, dall’elegia d’amore ellenistica.

L’autore è sicuramente in possesso di una notevole cultura; lo dimostra ad es. l’uso del termine ἀκαταστασία (v. 7) nell’accezione di “instabilità, incostanza, volubilità” (con cui ricorrerà ad es. in Polibio) ma forse anche di “mancanza di fermezza, debolezza” (con cui lo usa ad es. il filosofo Crisippo); la presenza del vocabolo qui, in un contesto erotico, mostra la capacità dell’autore di intervenire operativamente e in modo creativo sul lessico tradizionale. Non sembra perciò che si debba vedere nel poeta, come ipotizza Carlo Santaniello, “un grammatico […] munito di una discreta preparazione retorica e culturale, il quale riesca a rendere spesso il modo di parlare di  una persona di condizione sociale modesta, ma cada a sua volta in qualche ingenuità […] come  quando  inserisce  in  un  linguaggio  ardente  di passione,  resa  con  immagini  sempre  concrete,  un  vocabolo  astratto quale ἀκαταστασία” (“Chaos e Kosmos” XIX, 2018, p. 6).

A dimostrare la complessità del componimento, stanno le differenti ipotesi interpretative su di esso: alcuni ritengono il Fragmentum una monodia tragica (considerando l’uso del verso docmiaco), forse destinata all’esecuzione antologica di un attore, come si usava in età ellenistica; secondo altri è un frammento di ilarodia o di magodia (particolari tipologie di rappresentazione popolare); per altri ancora sarebbe un mimo urbano di tipo teocriteo con metro diverso o, come lo chiama la curatrice di una recente edizione, Elena Esposito, un “mimo  lirico”.

Comunque sia, è innegabile la forza patetica del brano: come commentava Gennaro Perrotta, “una poesia ammirevole per immediatezza, sincerità e vigore”. E non a caso fu scelto nel 2019 come lettura conclusiva in occasione della Notte nazionale del Liceo Classico.

Ecco il testo completo nella traduzione di Gianfranco Nuzzo:

Di entrambi fu la scelta:

ci congiungemmo, e Cipride è garante

di questo nostro amore. Il mio tormento

è ricordare i baci che mi dava

mentendo, mentre stava

già per abbandonarmi.

Fu lui che volle la rottura, lui

che per primo mi amò.

Io fui preda di Eros,

e non voglio negarlo.

O care stelle, o grande Notte, complice

del mio amore, portatemi da quello

al cui dominio m’hanno dato Cipride

e l’amore possente che m’ha preso.

Compagno alla mia strada è il grande fuoco

che mi brucia nel cuore.

Così mi umilia, così mi tormenta

quel traditore d’anime,

prima così deciso nel negare

che Cipride era causa del mio amore,

e ora insofferente

del più piccolo torto.

Io mi sento impazzire: è come un tarlo

la gelosia, mi brucia l’abbandono.

Basta che tu mi getti le corone

per ornarmene quando sarò sola.

Non lasciarmi qui fuori, o mio signore.

Aprimi: voglio essere tua schiava.

Amare alla follia dà grande pena:

è gelosia, pazienza, forza d’animo.

Essere di uno solo toglie il senno,

l’unico amore provoca follia.

Ma sappi che il mio animo è implacabile

quando mi prende l’ira: impazzirò

a dormire da sola,

a sapere che tu corri da un’altra.

Ora siamo adirati, ma al più presto

occorre fare pace:

forse per questo non abbiamo amici,

che diranno chi ha torto?

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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