Lo “sciopero della cittadinanza” e il dialogo assente

Come è noto, i “no pass” da oggi minacciano di bloccare il Paese. In tutti i settori (trasporto locale, forze dell’ordine, grande distribuzione, pubblica amministrazione, locali pubblici, agricoltura, ecc.) si contano percentuali notevoli di “no pass”; e se alcuni, “obtorto collo”, stanno andando (finalmente) a vaccinarsi, gli irriducibili (come i lavoratori del porto di Trieste) dichiarano guerra e sono pronti a fermare tutto. Colpisce in particolare il fatto che migliaia di autotrasportatori dell’Europa orientale, vaccinati con il fantomatico Sputnik (non riconosciuto dalla UE ma utilizzato a San Marino e acquistato dall’impagabile governatore campano De Luca per la sua regione), non siano ammessi ad ottenere il Qr code, che da domani sarà obbligatorio per lavorare.

L’attuale situazione del nostro Paese è ottimamente analizzata da Carlo Galli in un articolo su “Repubblica” intitolato “Lo sciopero della cittadinanza”.

Dopo una premessa sui provvedimenti necessari per fronteggiare la pandemia, Galli si pone due domande: «Perché la ribellione di questi giorni all’estensione dell’uso del Green Pass, dopo che il nostro Paese ha sopportato tutto sommato più che decorosamente la durezza di ben altre misure? Perché, ancora più radicalmente, una importante frazione della cittadinanza non accetta la vaccinazione, la teme e vi vede uno strumento di oppressione?».

Qui viene la parte più interessante dell’articolo. Galli infatti scrive che «non si è sottolineato abbastanza che al fondo di questa ondata di disobbedienza (all’obbligo del Green Pass) e di rifiuto (della sollecitazione vaccinale che gli è implicita) c’è la delegittimazione della sfera pubblica, ovvero la sfiducia dei singoli tanto verso lo Stato quanto verso ogni istituzione sociale portatrice di autorità (ad esempio, di autorità scientifica). È in realtà una sfiducia verso tutto e verso tutti che fa il paio, pur senza coincidervi, con l’astensionismo elettorale: è uno sciopero della cittadinanza, un collasso del legame sociale e della lealtà politica verso le istituzioni».

Questo “sciopero della cittadinanza” (e viene da sorridere amaramente pensando alle tardive attività di “cittadinanza” rilanciate nelle scuole dopo anni di latitanza di ogni nozione di Educazione Civica) secondo Galli va preso sul serio, per due motivi: «In primo luogo, perché è il segno di una ferita nella carne della nazione che può facilmente essere infettata, lo si è visto, da tutti gli agenti patogeni (in senso politico) che sono in circolazione. In secondo luogo perché si tratta di una involuzione e non di una evoluzione della nostra vita civile. Non siamo davanti al ritorno del conflitto politico dopo anni di conformismo. In quella che sembra una manifestazione (eccessiva) di attività politica c’è in realtà la passività e la disperazione del cattivo individualismo, c’è la solitudine spaventata e reattiva di chi si sente in un vicolo cieco e non sa più che cosa fare se non sfogare una rabbia sterile in una battaglia priva di strategia e di obiettivi, in una ribellione inconcludente».

L’analisi è chiara: la nostra è una nazione ferita e infettata, non tanto dal covid quanto soprattutto dall’affermarsi micidiale di un’insofferenza crescente verso ogni forma di costrizione, sia pure motivata da motivi d’emergenza.

L’astensionismo di massa alle recenti elezioni amministrative (con solo il 54,69% di votanti) è, come ho già avuto modo di scrivere qui, un dato sconcertante e avvilente. Non si vota perché lo si ritiene inutile, perché si è furenti verso tutto e verso tutti, perché non si ha più fiducia né nei rappresentanti eletti né nel metodo democratico in sé. Da qui l’approdo a una palude priva di ideologie, nervosa, diffidente, astiosa e pronta a esplodere in atti di violenza incontrollata (i fatti degli ultimi giorni ne sono triste testimonianza).

In questo contesto, come lucidamente annota Galli, «i partiti, soprattutto quelli che si dicono portatori delle esigenze di cambiamento politico e sociale, fanno malissimo ad assecondare queste pulsioni di piazza, strumentalmente alla ricerca di voti che probabilmente non verranno».

Questa ultima annotazione è particolarmente attenta alla situazione attuale, soprattutto considerando gli esiti delle ultime consultazioni elettorali: cavalcando la tigre della contestazione al governo (anche dall’interno del governo stesso), certe forze pseudopopuliste e in realtà concretamente reazionarie e oscurantiste si erano illuse di ottenere più voti; ma incappando, a loro volta, nella palude di cui parlavamo sopra e che loro stessi hanno contribuito a creare, possono ricevere (e hanno già ricevuto) amare disillusioni. Per fortuna però non sembrano aver imparato la lezione e continuano a sproloquiare alternando dichiarazioni cerchiobottistiche o rispolverando a vanvera terminologie desuete (vedi la “strategia della tensione” citata da Giorgia Meloni in parlamento, fuorviando il vero senso di questa tristissima pagina della nostra storia).

Galli chiude con un invito ad «alzare lo sguardo oltre il presente più immediato, e cercare l’apertura d’orizzonte che viene dopo la fine dell’emergenza»; a suo parere, occorrerebbe, «anziché procedere in una ribellione improduttiva, impegnarsi per fini sociali e politici che possono essere perseguiti […] anche con il conflitto, legittimo e fisiologico in una democrazia che non voglia lacerarsi e deperire sul sì o il no a un vaccino o a un lasciapassare. C’è molto altro da pensare e da fare».

Questa sezione conclusiva induce a qualche perplessità, sia perché può “alzare lo sguardo” solo chi non è cieco, sia perché “la fine dell’emergenza” non è ancora percepita come possibile da molte persone scoraggiate, sia ancora perché la “ribellione improduttiva” appare purtroppo la soluzione più elementare per molte persone abituate ormai ad una dissidenza aprioristica e indiscriminata.

Quanto al concetto di “conflitto”, ritenuto da Galli “legittimo e fisiologico”, bisognerebbe invece intraprendere una “pacificazione nazionale” meno furbesca e fasulla di quella proposta ieri da Salvini (pronto a nascondere la mano mentre scaglia sassi a destra e a manca) e basata invece prioritariamente sul recupero della “cittadinanza”, intesa come “senso dell’appartenenza a una comunità politica”.

Se non si va a parlare con la gente, se si sceglie la strada della contrapposizione drastica, se non si riporta la fiducia nelle persone, anche con un “porta a porta” capillare (quanto sarebbe stato importante coinvolgere più efficacemente i medici di famiglia nella campagna vaccinale, visto il loro collegamento con la “base”!), se si dà agli elettori l’impressione di utilizzare i loro voti secondo la direzione del vento (con l’inverecondo spettacolo di parlamentari eletti in un partito e migrati poi in un altro), non sarà facile “alzare lo sguardo” e intraprendere un cammino di riconciliazione nazionale.

La richiesta di dialogo di cui si parlava prima è una delle cose che riesce meno all’attuale premier Draghi, che – nel difficile contesto odierno – tiene il punto sulle decisioni adottate e tira dritto nella convinzione che basti stringere i denti per qualche settimana, perché il contenimento della pandemia sarà il vero antidoto contro i no pass e i no vax.

Il guaio però è che Draghi con la gente comune non parla: non sa dialogare con i cittadini perché non ci è abituato e non lo ha mai fatto, non fa messaggi televisivi (a differenza del suo sovraesposto predecessore), non chiarisce dubbi. Procede, con abilità ed esperienza indubbie, per la strada che ritiene giusta e con chi ci sta (riuscendo a vanificare facilmente gli eventuali dilettanteschi dissensi, come in occasione delle proteste di Salvini sulla riforma del fisco); però non ritiene di dover parlare alla nazione, anche se questa nazione sta attuando uno “sciopero della cittadinanza”, forse velleitario nelle intenzioni e nei risultati, ma comunque preoccupante.

Vada in televisione, il gelido presidente del consiglio.

Provi a parlare alla gente in modo chiaro ed efficace. Accantoni il suo atteggiamento distaccato, faccia capire alle persone il motivo e il senso delle sue disposizioni; si scordi il suo indubbio e meritato carisma europeo e mondiale e tenti di guadagnarsene uno nazionale, entrando, se non nel cuore delle persone, almeno nella loro considerazione e nella loro attenzione.

La gente diventa intrattabile quando non viene trattata: non occorre fare molta scuola di politica per capirlo.

Draghi parli al Paese: whatever it takes.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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