Alcune note sulle malattie mentali nell’antica Grecia

La vita organizzata della polis prevedeva l’esclusione dei malati di mente dalle cariche politiche e dal servizio militare, il divieto di portare armi e la nullità del testamento; per il resto i “pazzi” erano lasciati liberi e affidati alla famiglia. Non è però documentata una legislazione attica in materia, il che dimostra che non esisteva un sistema repressivo organizzato. Solo Platone, nelle Leggi (934 c-d), afferma che al pazzo deve essere proibito di aggirarsi per la città e che deve essere tenuto in casa dai parenti; il filosofo però arriva a ideare una struttura pubblica (antenata dei moderni manicomi) in cui chiudere gli alienati, un σωφρονιστήριον (“casa che rende saggi”), primo caso (solo teorico) di intervento sulla follia da parte di un potere costituito.

Ippocrate ricorda le cure tradizionali della follia, basate su prescrizioni di igiene alimentare ed in parte magiche: “Consigliano di astenersi dai bagni e da molti cibi non adatti ai malati: dalla triglia, dal melanuro, dal muggine e dall’anguilla; fra le carni, quelle della capra, del cervo, del maiale e del cane (che disturbano maggiormente l’intestino)… Ordinano poi di non indossare un abito nero, che è simbolo di morte, di non sdraiarsi su una pelle di capra e di non indossarla, di non tenere un piede sopra l’altro o una mano sull’altra” (De morbo sacro 2).

Platone nel Fedro ritiene che la cura della follia possa essere “omeopatica”: 1) da un lato sta la follia “cattiva”, ereditaria, causata da colpe “genetiche”; 2) dall’altra la follia “giusta”, prodotta da rituali, la follia “iniziatica”.  Questo secondo tipo di follia, ritualizzando i disturbi psichici, prevedeva forme di cura basate sulla musica e la danza. Che la musica fosse ritenuta utile nella cura della follia è dimostrato dal mito di Orfeo (che ammansiva le belve e dominava gli elementi col canto), che era la versione greca di un archetipo magico-rituale assai diffuso. Nell’Odissea poi Autolico, il nonno di Odisseo, ed i suoi figli fermano il sangue della ferita provocata al giovane eroe dal cinghiale mediante il canto (XIX 457-8).

Anche i Pitagorici praticavano forme di “purificazione” dell’anima con canti, musiche, danze, poesie; e pure nel mondo ebraico la pazzia violenta di Saul era stata placata dall’arpa di David, che ogni mattina suonava per lui (I Samuele 16, 14-23).

Un accenno ovviamente va fatto ai Coribanti, ministri di Cibele con funzioni risanatrici (fra cui la cura della μανία); al tempo di Platone erano danzatori che praticavano rituali iniziatici durante i quali deliravano: Οἱ κορυβαντιῶτες οὐκ ἔμφρονες ὄντες ὀρχοῦνται (Ione 553e). Nell’Atene del V sec. a.C. erano specializzati nella cura musicale e rituale della pazzia. Il “malato” era era posto su un trono (θρονισμός) e circondato dai danzatori, che così lo “iniziavano”; la musica era data da flauti e tamburelli, nella “melodia frigia”.

Un passo di Platone (Eutidemo 277d) sembra alludere alla partecipazione personale di Socrate ai riti coribantici: i giovani “di buona famiglia” potevano dunque parteciparvi.

Un sintomo che si riteneva collegato alla follia era il φόβος (“paura”): artefice delle paure improvvise era considerato Pan, il dio pastorale dell’Arcadia. E già il Corpus Hippocraticum parla delle crisi di panico, alludendo all’agorafobia, alla nosofobia e perfino alla gefirofobia (paura di attraversare i ponti).

Ippocrate peraltro polemizza contro l’arcaica nozione di possessione divina; attribuisce infatti le cause delle malattie a fattori ambientali anziché a fenomeni soprannaturali, e sottolinea l’importanza dei sintomi per la formulazione di una diagnosi. Basandosi sull’osservazione clinica, Ippocrate considerò le “freniti” malattie psicotiche organiche primitive del cervello (disturbo mentale acuto con febbre); le “manie” erano invece i disturbi mentali acuti senza febbre; infine la predominanza dell’umore nero, secreto dalla bile, portava ad un’indole pessimista, la “malinconia” (μελαγχολία, lett. “bile nera”).

Non mancano in Ippocrate i primi accenni all’isteria, da ὕστερον, che indica l‘utero (e che ovviamente molti alunni del classico traducono con “dopo”…); si riteneva infatti che tale organo femminile si spostasse all’interno del corpo, entrando in contatto con cuore, fegato, testa, arti, che così dolevano. L’isteria, come è noto, fu poi vista come frutto dell’insoddisfazione erotica (il che coincide sostanzialmente con l’interpretazione fornita molti secoli dopo dalla scuola psicoanalitica di Freud).

Per tutto ciò consiglio di rileggere il bellissimo libro di Giulio Guidorizzi “Ai confini dell’anima – I Greci e la follia”, Raffaello Cortina editore, Milano 2010; ma allo stesso autore appartengono altri illuminanti contributi sull’argomento.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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