Longo Sofista e i sintomi d’amore

Di Longo Sofista non abbiamo notizie; si è dubitato perfino del nome Longus (in greco Λόγγος), riportato nelle inscriptiones della maggior parte dei manoscritti e ritenuto di origine romana. L’appellativo “Sofista” fu aggiunto per motivi stilistici dallo Jungermann, editore del romanzo nel 1605.

Longo è stato variamente indentificato con: 1) un borghese benestante di Lesbo nella quale è ambientato il suo romanzo (ma la descrizione dell’isola nel testo non sembra rispecchiare una precisa conoscenza topografica); 2) un nobile lesbio-romano, in possesso di un’ottima conoscenza della lingua greca; alcune iscrizioni attestano la presenza sull’isola, a partire dall’età di Cesare, dell’insigne famiglia dei Pompeii Longi, che avrebbe conservato a Roma il culto dionisiaco della patria; 3) il grammatico Velio Longo, vissuto al tempo di Adriano, dato che costui scrisse un commento sull’Eneide e l’opera di Longo presenta alcune affinità con Virgilio; 4) originario di Lesbo e poi divenuto schiavo di un romano che, affrancandolo, gli avrebbe dato il proprio nome.

Non meno problematica è la cronologia: la datazione sembra collocabile tra la fine del II e la prima metà del III sec. d.C. sulla base di vari indizi interni al testo e dello stile, che ricorda la Seconda Sofistica (vd. infra).

Il romanzo di Longo Sofista, Avventure pastorali di Dafni e Cloe (Ποιμενικῶν τῶν κατὰ Δάφνιν καὶ Χλόην λόγοι) è articolato in soli quattro libri, riflettendo forse le antiche opinioni di Aristotele sul poema epico, la cui estensione, a suo parere, doveva corrispondere ad una tetralogia tragica; a tale idea s’era già adeguato Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche.

Nella parte iniziale il capraio Lamone trova un bambino abbandonato con dei preziosi segni di riconoscimento e lo alleva come figlio suo, chiamandolo Dafni; intanto anche il pecoraio Driante rinviene una bambina, pure lei con segni di riconoscimento, e la chiama Cloe. I due bambini crescono insieme nei pascoli e, gradualmente ed inconsapevolmente, si innamorano (lei vede Dafni bagnarsi nudo in una fonte, lui riceve da lei un bacio). I due ragazzi provano i sintomi del male d’amore, ma non li riconoscono e soffrono maggiormente per l’inconsapevolezza.

Nel romanzo è del tutto originale, rispetto agli altri romanzi, l’ambientazione, circoscritta nell’eden bucolico dell’isola di Lesbo. Si tratta di un ambiente simile a quello descritto da Teocrito e da Virgilio, con connotati più fiabeschi; alcune scene ricordano l’Euboico di Dione Crisostomo.

La natura è il registro dominante del romanzo, con ampie descrizioni di paesaggi agresti e frequenti episodi di vita pastorale. Il ciclo delle stagioni regola ogni avvenimento di questo mondo pastorale e l’amore dei due protagonisti sembra seguirne il corso: “alle peripezie in paesi lontani Longo sostituisce il viaggio nel tempo, attraverso le stagioni che scandiscono in progressione la crescita fisica dei due fanciulli e la maturazione dei loro impulsi emotivi e sessuali” (M. P. Pattoni, Longo Sofista – Dafni e Cloe, BUR, Milano 2005, p. 132). Rispetto agli altri romanzi d’amore, infatti, sono occasionali le peripezie ed i lunghi viaggi: il principale ostacolo all’unione dei due ragazzi è la loro inesperienza, il loro essere “imbranati”.

Notevole è l’analisi psicologica della scoperta dell’amore da parte dei due pastorelli, una scoperta graduale non priva di momenti maliziosamente comici.

A parte i già ricordati modelli “bucolici”, Longo attinge anche a Menandro (specie nei monologhi), alla tragedia greca (si è parlato di “ripresa paratragica” per diverse scene del romanzo), all’epos (con indubbie reminiscenze dell’Odissea) e alla Seconda Sofistica (per il già ricordato gusto delle descrizioni e lo stile accurato). Fra i poeti latini emergono affinità con Virgilio (con le Bucoliche per l’ambientazione agreste e con le Georgiche per i cenni “tecnici” all’agricoltura) e con Ovidio (ad es. con l’Ars Amatoria, per il connubio fra l’ingenuità dei protagonisti e la sensualità maliziosa di altri personaggi).

Si tratta in definitiva di un “prodotto letterario di intrattenimento ed evasione” opera di un letterato raffinato e colto; nella semplicità della trama e del ritmo narrativo si nota un’estrema abilità costruttiva da parte dell’autore, che ha creato un’opera di piacevole lettura e non priva di interessanti spunti riflessivi.

Il successo dell’opera fu immenso in ogni epoca, influenzando in particolare la produzione letteraria “bucolica”, a partire dal romanzo pastorale Arcadia di Jacopo Sannazaro (1504) e passando poi attraverso innumerevoli rifacimenti; ne derivarono fra l’altro la seconda parte della Nuova Eloisa di Rousseau (1761), alcuni testi di Goethe (ad es. l’idillio Hernan und Dorothea, 1796-1798), il balletto Dafni e Cloe di Maurice Ravel (scritto tra il 1909 e il 1912), le illustrazioni di Marc Chagall alla traduzione tedesca di L. Wolde (Monaco 1982).

La lingua è la κοινή; le scelte lessicali sono semplici e attingono talora alla lingua poetica. A livello stilistico, parti narrative semplici e scorrevoli, caratterizzate da una σαφήνεια e da un’ἀφέλεια che ricordano Lisia e Senofonte, si alternano a sezioni in cui è evidente la ricerca di un’eleganza piuttosto artificiosa; qui l’affinità con la Seconda Sofistica emerge nell’uso di antitesi e parallelismi, nonché nel tono ironico e distaccato.

Nei capitoli I 13-14 Dafni e Cloe si recano alla grotta delle Ninfe; il ragazzo nudo fa il bagno presso la sorgente e Cloe ne ammira la bellezza, provando per la prima volta un misterioso turbamento. L’indomani al pascolo Dafni suona la zampogna e Cloe è di nuovo attratta da lui, ma attribuisce l’origine del suo stato d’animo alla musica. Poi la ragazza induce il compagno a fare di nuovo il bagno e ancora una volta è conquistata dalla sua bellezza. Cloe però non sa che cosa sia l’amore e quindi non sa riconoscerne i sintomi (trascura il cibo, non dorme di notte, non si cura più del gregge, alterna il riso e il pianto, avvampa di improvvisi rossori). Analizzando il suo stato d’animo, si sente malata ma non capisce l’origine del suo male.

Come si vede, nel romanzo di Longo Sofista, a differenza di quanto avviene negli altri romanzi greci pervenuti, l’amore fra i protagonisti non nasce in seguito a un “colpo di fulmine” improvviso, ma gradualmente e quasi inconsapevolmente. Inoltre l’innamoramento non è neppure simultaneo: prima è Cloe ad invaghirsi di Dafni, sia pure senza comprendere esattamente ciò che le sta succedendo, successivamente sarà il ragazzo a ricambiare il sentimento della fanciulla.

La scena dell’innamoramento di Cloe si articola in tre fasi: 1. la ragazza scopre la bellezza di Dafni, in occasione del bagno; 2. il giorno successivo, ammira le azioni di Dafni e le imita (suono della zampogna, nuovo bagno); 3. Cloe “si ammala”.

La terza fase, quella della “malattia d’amore”, è a sua volta articolata in due “sotto-fasi”: 1. una sezione narrativa, in cui il νόσος è descritto nei sintomi fisici (con derivazione dalla lirica erotica, ad es. da Saffo); 2. una sezione drammatica, con un monologo di Cloe ricco di pathos, nel quale sono contaminati motivi epigrammatico-elegiaci e motivi di ascendenza teatrale/tragica.

Il primo input per la nascita dell’amore in Cloe è costituito dal bagno di Dafni: modello evidente della scena è l’episodio del bagno di Odisseo nel VI libro dell’Odissea (vv. 224-245) con le successive reazioni di Nausicaa. Non mancano però evidenti differenze: non c’è qui la notevole differenza di età fra i due personaggi; i protagonisti del romanzo si conoscono praticamente da sempre, mentre Nausicaa aveva appena incontrato Odisseo; Odisseo aveva subito una vera e propria metamorfosi in pochi minuti, grazie anche al provvidenziale intervento di lifting e wellness operato su di lui da Atena, mentre l’aspetto di Dafni era rimasto immutato (solo che ora Cloe lo guarda con occhi diversi).

All’intelligenza ed alla finezza di Nausicaa, poi, si contrappone l’ingenuità della “rustica” Cloe, che non riesce a comprendere quello che prova e alterna motivazioni ridicole e scorrette a curiosi esperimenti personali: poiché, ad es., Dafni a Cloe ora “sembrava bello” mentre in passato non aveva avuto su di lei lo stesso effetto, la ragazza attribuisce il merito della sua bellezza al bagno; gli lava quindi la schiena e, avvertendo la morbidezza della pelle di lui, la confronta con la propria mediante un’ingenua autopalpazione; in seguito, il fascino di Dafni mentre suona il flauto viene attribuito alla musica e induce la ragazza a prendere a sua volta lo strumento, nell’inconscio desiderio di sentirsi bella e di attrarre il ragazzo; Cloe richiede poi al giovane un nuovo bagno e coglie l’occasione per toccarlo di nuovo e, per la prima volta, per rivolgergli delle lodi.

Il narratore a questo punto interviene per rivelare espressamente l’evidente innamoramento di Cloe, non senza una punta di affettuosa ironia per la “ragazzetta inesperta”: «Non capiva che cosa le stesse succedendo, ragazzetta inesperta com’era, e allevata in campagna e che non aveva mai sentito neppure pronunziare da altri il nome «amore»: una grande malinconia le prendeva il cuore; non era più padrona dei suoi occhi e aveva continuamente in bocca il nome di Dafni» (13, 5).

Al cap. 14 si ha il primo monologo del romanzo, pronunciato da Cloe. Mentre la precedente sezione narrativa (13, 5-6) si concentrava nella descrizione dei sintomi fisici, il monologo di Cloe è dedicato alle reazioni psichiche. In esso vengono utilizzati vocaboli che alludono ad una sofferenza fisica e psicologica, esplicitando il tormento della fanciulla: νοσῶ (“sono malata”), νόσος (“malattia”), ἀλγῶ (“spasimo”), λυποῦμαι (“mi affliggo”), καίομαι (“avvampo”).

Decisamente topici sono i successivi sintomi del mal d’amore, filtrati peraltro attraverso il nuovo codice della letteratura pastorale (con la mediazione della poesia bucolica alessandrina): il deperimento fisico (13, 6) ricorda la sofferenza della Fedra euripidea (cfr. Ippolito 274 ss.) o della Simeta di Teocrito (cfr. Incantatrice II 89-90); l’indolenza (13, 6), che induce a trascurare le normali attività lavorative, era stata già presentata da Saffo (cfr. 102 V.); le notti insonni erano tipiche delle donne innamorate (cfr. la Penelope omerica, la Deianira sofoclea e Medea in Apollonio Rodio, rispettivamente in Od. IV 839-840 e XX 57, Trachinie 106 ss. e 175-176, Argonautiche III 616 ss.). Quanto al brusco passaggio dal riso al pianto, indizio di forte turbamento emotivo, esso era già in Omero (cfr. Andromaca in Il. VI 484).

Del tutto nuova è però l’inconsapevolezza di Cloe, che descrive i propri sentimenti senza saperne dare un’interpretazione, senza comprendere che cosa sia a farla stare così male.

La conclusiva serie di domande rivolte dalla fanciulla alle ninfe deriva da contesti (tragici o lirici) caratterizzati da un intenso pathos emotivo e da sdegnate accuse; qui però il tono, più che polemico, è mesto e malinconico, indicando il congedo dalla fase “infantile” di Cloe (come dimostra l’abbandono degli “sventurati agnelli” e del “grillo canterino”) e l’inizio di una nuova esistenza tormentosa.

Ecco il brano nella traduzione di C. Monteleone:

Cap. 13. – 1. Andò alla grotta delle Ninfe insieme a Cloe e le affidò la tunica e la bisaccia. Lui, stando presso la sorgente, si lavava e i capelli e tutto il corpo: 2. i capelli erano neri e folti; il corpo abbronzato dal sole, tanto che si sarebbe creduto che ricevesse il colore dall’ombra dei capelli. 3. A Cloe che guardava, Dafni sembrava bello e, poiché prima non le era sembrato bello, attribuiva al bagno il merito della bellezza. E, mentre gli lavava il dorso, sentendo le carni cedere morbide al tatto, lei furtivamente si palpava di tanto in tanto, per saggiare se fosse più delicata. E allora, poiché il sole era al tramonto, ricondussero a casa le greggi e Cloe nessun altro sentimento provava che il desiderio di rivedere Dafni al bagno. 4. Il giorno successivo, quando giunsero al pascolo, Dafni, seduto sotto la quercia consueta, suonava il flauto e nel contempo sorvegliava le capre, che, sdraiate ai suoi piedi, pareva stessero ad ascoltare la sua musica; Cloe, seduta accanto, badava sì al gregge delle pecore, ma per lo più fissava lo sguardo su Dafni, e di nuovo, mentre suonava, le sembrava bello e di nuovo attribuiva l’origine della bellezza alla musica, tanto che dopo di lui anche lei prese il flauto per vedere se diventava bella anche lei. 5. E lo indusse a fare il bagno di nuovo e lo guardò mentre si lavava e, dopo averlo guardato, lo toccò e al momento di dirsi un’altra volta arrivederci, lo lodò. Quelle lodi erano il principio dell’amore. Non capiva che cosa le stesse succedendo, ragazzetta inesperta com’era, e allevata in campagna e che non aveva mai sentito neppure pronunziare da altri il nome «amore»: una grande malinconia le prendeva il cuore; non era più padrona dei suoi occhi e aveva continuamente in bocca il nome di Dafni; 6. trascurava il cibo, la notte non riusciva a prendere sonno, non si curava del gregge; ora rideva, ora piangeva; si addormentava e poi si svegliava di soprassalto; ora impallidiva, ora avvampava di rossore: cose che non accadrebbero neppure a una giovenca punta dall’assillo. Una volta, trovandosi sola, le vennero pensieri simili:

Cap. 14 – 1. «Ora io sono malata, ma che malattia abbia non so; spasimo, eppure non ho ferite; mi affliggo, eppure non ho perduto neanche una pecora; avvampo, eppure sono seduta al fresco di quest’ombra così densa. 2. Quante spine tante volte mi hanno punto, e non ho cacciato un lamento; quante api mi hanno infitto il pungiglione, ma tuttavia non ho perduto l’appetito! Ma quel che ora mi trafigge il cuore, di tutte queste cose è più pungente e più amaro. Bello è Dafni, ma anche i fiori; dolce è il suono del suo flauto, ma anche il canto degli usignoli. Eppure dei fiori e degli usignoli non m’importa proprio nulla. 3. Fossi io il suo flauto, perché mi soffiasse dentro il suo fiato; fossi io una capra, per essere da lui menata al pascolo! O acqua malvagia, solo Dafni hai reso bello, io mi sono lavata invano! Ninfe mie, mi sento morire: neppure voi avete cura della fanciulla che in mezzo a voi fu allevata. 4. Chi vi ornerà di corone, dopo di me? Chi tirerà su i miei sventurati agnelli? Chi si prenderà cura del grillo canterino che con tanta fatica ho catturato, perché mi conciliasse il sonno, cantando davanti alla grotta? Ora io non riesco più a dormire al pensiero di Dafni, e il grillo canta invano».

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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