Continuo a scoprire “chicche” e curiosità nell’enorme repertorio di articoli pubblicati da mio padre, Salvatore Pintacuda, in riviste musicali e quotidiani. Oggi propongo la lettura di una storia decisamente poco nota, che riguarda un compositore di nome Stefano Gobatti.
Era nato a Bergantino (Rovigo) nel 1852 da un’umile famiglia contadina; appassionato alla musica, ne seguì gli studi e nel 1873, a soli ventun anni, vide rappresentare al Teatro Comunale di Bologna la sua opera lirica “I Goti”.
Ebbene, le cronache dell’epoca testimoniano un successo senza precedenti ed un enorme consenso di pubblica e critica. Nel giro di poche settimane il giovane musicista ottenne moltissimi riconoscimenti e onori: ebbe la Cittadinanza onoraria di Bologna (come già Verdi); fu nominato socio d’onore dell’Accademia Filarmonica di Bologna (come Wagner), ottenne la nomina a cavaliere della Corona d’Italia dal Re Vittorio Emanuele II. Giosuè Carducci lo esaltò e promise che avrebbe scritto un libretto per lui.
Tutto lasciava pensare che si spalancasse a Gobatti un avvenire destinato a oscurare il successo di Verdi, Rossini, Bellini e Donizetti.
Un articolo di mio padre, “Stefano Gobatti – Una settimana di gloria”, pubblicato il 30 giugno 1946 su “La domenica del Giornale di Sicilia” (di cui era critico musicale), ricostruisce questa curiosa vicenda di una “meteora” luminosa quanto effimera.
Riporto qui di seguito questo contributo, che – al di là della vicenda particolare – mi pare abbia il merito di far riflettere sulla caducità di certe valutazioni umane, di certi successi che oggi appaiono straordinari per rivelarsi castelli di carta domani. In un’epoca come la nostra, che crea e distrugge miti e consensi a ritmo sempre più incalzante, sarebbe opportuno imparare a valutare ogni cosa con minore superficialità e frettolosità.
STEFANO GOBATTI – UNA SETTIMANA DI GLORIA
di SALVATORE PINTACUDA
Suo padre vuol farne un ingegnere, ma lui si impunta, ostinato e caparbio, a voler studiare musica e tanto insiste nel suo fermo proposito che alla fine la spunta anche sulla volontà paterna.
Studia a Mantova, a Bologna, Parma, Napoli, cambiando spesso città e maestri, ma non mutando mai la sua volontà di riuscire a qualunque costo: «Il teatro sarà la mia gloria, il mondo dovrà inchinarsi davanti ai miei trionfi. Voglio oscurare Verdi, seppellire Wagner, dominare, con le mie opere, sulle scene di tutti i teatri lirici…».
È giovane; su ogni suo sentimento domina la ferrea volontà di imporre a tutti impetuosamente i diritti, i privilegi, gli impeti e i poteri della sua giovinezza. E scrive, lavora, divora contrappunti, elabora e compone con febbrile alacrità pezzi strumentali, brani corali, sinfonie, romanze; salvo a distruggere sistematicamente, non appena ultimate, tutte le sue composizioni. Perché la sua carriera – è un chiodo fisso ormai! – deve cominciare con un’opera, con una grande, colossale opera lirica.
Arriva finalmente quest’opera: “I Goti”. Ma il «Comunale» di Bologna, cui si è rivolto, non vuol saperne di metterla in scena. È l’opera di un musicista ventenne, quasi ignoto, conosciuto soltanto per le sue liti e le continue diatribe con i colleghi musicisti. Quale impresa vorrà assumersi un così grave e costoso rischio?
Si arriva però ad un compromesso: sborsi l’autore le seimila lire occorrenti per la rappresentazione dell’opera e le porte del «Comunale» si apriranno alla invasione di tutti i Goti, Visigoti, ed Ostrogoti di qua e di là del Danubio.
Il giovane compositore è disperato e afflitto; ma gli amici si mettono d’impegno a racimolare la somma e così la sera del 30 novembre 1873 “I Goti” di Stefano Gobatti affrontano il fuoco della ribalta.
Mai si è visto nella storia del teatro un successo così strabiliante. La sala è in delirio, i bolognesi sono tutti impazziti e ogni brano, ogni frammento dell’opera è pretesto alle acclamazioni del pubblico che, nel fervore degli applausi, sventola in aria tutto quanto può sventolare: nastri, fazzoletti, cappelli. È la frenesia, l’entusiasmo, l’apoteosi.
Gobatti è costretto a comparire alla ribalta non si sa quante volte, ed ogni volta che si affaccia a ringraziare divampa sempre più la fiamma della commozione e dell’ammirazione popolare.
La madre del maestro, all’annuncio del grande successo, piomba a terra svenuta per la emozione, mentre un vecchio zio, di carattere sensibilissimo, muore sull’istante di gioia, colpito da un attacco apoplettico.
L’indomani tutti i giornali, anche quelli ormai addestrati nell’arte di girare e rigirare i trionfi sulla graticola di una critica spietata, riportano l’eco del grande successo. Il Panzacchi scrive: «Registriamo il trionfo dei “Goti”. Ho scritto “trionfo” perché il vocabolario non mi dà una parola più efficace a qualificare l’esito di ieri sera. Le cinquantuna chiamate che s’ebbe l’autore sono nulla a confronto del resto».
Tutta la città è piena di fanatismo per Gobatti. Il suo nome è sulla bocca di tutti, si parla di lui, nei passeggi, nei ritrovi, nelle case, nelle vie, come un araldo del nuovissimo verbo musicale. La casa editrice Lucca acquista l’opera per quarantamila lire, il Comune di Bologna offre al musicista la cittadinanza onoraria.
È vera gloria? No, è fuoco di paglia!
Il delirio delle esaltazioni comincia poco a poco, quasi inesplicabilmente, a scemare, ad affievolirsi, a svanire nel nulla e – “sic transit gloria mundi!” – sbolliti i primi entusiasmi, l’opera ed il suo creatore piombano presto nel più desolante e squallido abbandono.
Gobatti è amareggiato, deluso, ma non si abbatte né si avvilisce; si rimette invece subito al lavoro con accanimento e col fermo proposito di riconquistare il favore del pubblico.
Ora tutta la musica che ha creato grava sul suo animo come una gelida lastra di marmo ed egli sa che bisogna superare se stesso, bisogna superare l’opera precedente o non farne.
La nuova opera è “Lux”, e questa volta le porte del “Comunale” si spalancano rapidamente, pronte ad accogliere il nuovo capolavoro. Ma fin dalla prima rappresentazione lo spartito non brilla di vivida luce e dopo qualche bagliore diafano e sinistro si spegne.
Gobatti tenta ancora con una nuova opera, “Cordelia”, di riacciuffare il successo, ma il pubblico, divenuto diffidente, ostile, spietato, gli volta sgarbatamente le spalle e non si cura più di lui.
È la fine. Le fatiche ed i dolori lo scoraggiano e lo abbattono; si chiude nel silenzio; insegna canto corale in una scuola elementare; si ritira in un convento di frati francescani dove si trascina a stento la sua triste e sconsolata esistenza.
Poi rapidamente declina e, assalito da paurose allucinazioni, sconvolto da squilibri mentali, corre alla morte.
Nell’anno 1913, Stefano Gobatti, colui che doveva conquistare il mondo con la sua arte, si spegne in una casa di salute, povero, solo ed obliato da tutti.
SALVATORE PINTACUDA – 30 giugno 1946
P.S. (a cura di M.P.): Giuseppe Verdi definì “I Goti” «il più mostruoso aborto musicale che sia stato mai composto» (C. Gatti, “Verdi”, Milano 1931, p. 271). L’opera fu riproposta nel febbraio 1876, in un’unica rappresentazione alla Scala di Milano; in quell’occasione Arrigo Boito la definì una “brutta cosa” e, riferendosi a Gobatti, commentò acidamente: «non capisco come colui s’ostini nel voler fare ciò che non sa e non saprà mai fare».
A proposito dei “Goti”, come si legge nell’Enciclopedia Treccani, «il proclamato rinnovamento dell’opera si scontrava con una sostanziale incompetenza tecnica: impaccio nell’uso di idee melodiche, peraltro banali (come l’Inno gotico, la cui inconsistenza non giustifica la sua insistita ripresa nei punti culminanti del dramma); continua assunzione di moduli armonici scontati, rotanti costantemente attorno all’accordo di settima diminuita, e ripetitività delle progressioni; mancanza di pratica nella conduzione delle voci e nella prosodia; difetti di strumentazione; eccessiva semplificazione nell’elaborazione degli scarni numeri d’insieme, dei concertati e dei cori. A tutto ciò corrisponde un libretto dalla fattura convenzionale, pieno di maledizioni, premonizioni e invettive, da sfiorare spesso il grottesco e il ridicolo. I travisamenti della critica non perdurarono a lungo, e il mancato superamento dei difetti di scrittura in “Luce” e in “Cordelia” decretò il definitivo ostracismo del G. dalla vita musicale».
L’ultima opera del compositore veneto fu il “Massias” (scritto tra il 1905 e il 1912 ma non rappresentato), che trattava la storia del trovatore galiziano Macías, vissuto nel XIV secolo.
Di Gobatti è testimoniata, infine, l’adesione alla Massoneria dal 1885 nella “Loggia Otto agosto” di Bologna (cfr. V. Gnocchini, “L’Italia dei Liberi Muratori”, Erasmo ed., Roma, 2005, p. 148).
Gobatti fu sepolto nel Cimitero monumentale della Certosa di Bologna, accanto a quelli che furono i suoi principali estimatori, cioè Giosuè Carducci ed Enrico Panzacchi.
Ecco come si diventa famosi per la propria mediocrità. Non credo però che tutta la sua musica sia da buttare.