In un’ottima pasticceria vicino casa mia ho comprato due “chiavi di san Pietro”, dolci tipici della tradizione di Palermo e da consumare appunto nel periodo antecedente al 29 giugno, per la festa dei Santi Pietro e Paolo.
Questi ottimi biscotti a forma di chiave furono creati anticamente dall’inesauribile creatività gastronomica del popolo palermitano in onore di San Pietro, detentore delle chiavi del Paradiso e protettore dei pescatori. Originariamente le “chiavi di san Pietro” erano dolci molto poveri, caratterizzati da una semplice pasta di farina di frumento, a volte unita a farina di mandorla, che veniva glassata con una leggera colata di miele. Preparata la pasta, questa veniva distesa su un ripiano di marmo; con un apposito stampo erano ritagliate le chiavi che, dopo l’infornata, erano spennellate con del miele e spolverate con zucchero colorato; i biscotti erano poi decorati con confettini di zucchero bianco all’anice, fondamentali per creare il loro inconfondibile sapore.
Anticamente a Palermo vi era un rione, all’interno del mandamento di Castellammare (fra la Cala e via Roma), dove abitavano pescatori e pescivendoli soprannominati “Sanpietrani” perché devoti a San Pietro; mancava nel quartiere una chiesa dedicata al santo, ma una sua statua è posta nella vicina chiesa di Santa Cita e viene portata in processione nel rione il 29 giugno. Nel quartiere, un tempo, i festeggiamenti in onore del santo avevano inizio il 28 sera; anche nella successiva notte la gente festeggiava con vino, “babbaluci” (lumache) cucinati “a picchi pacchi”, angurie ecc. Oltre a preparare ogni ben di Dio, le nonne regalavano ai nipoti i caratteristici biscotti a forma di chiave, appunto le cosiddette “chiavi ri San Pietru”.
Di questo dolce e delle tradizioni a esso legate parlava così Giuseppe Pitrè: “Verso la metà di giugno si cominciano a vendere per Palermo, sparse e ammonticchiate sopra tavole e canestre, chiavi di pasta melata (‘di meli’) di paste e mandorle abbrustolite (“sussamela”), di torroncino, di cannella e di altro dolciume. Ve n’è di varie fogge, dimensioni e prezzo, da un centesimo o due, che per lo più le mamme comprano ai bambini che lo cercano, a una a due lire parlandosi di quelle che si vendono per le strade, a quindici o venti e più lire se si vada alle pasticcerie. Vi son chiavi da mezzo metro, anche d’un metro, che si portano sopra tavolette. […] Un fidanzato crederebbe di mancare a un dovere di galateo amoroso, non presentando all’amata una bella chiave: regalo per San Pietro. La chiave deve aprire il suo cuore; la chiave è il simbolo della facoltà che egli acquisterà un giorno o l’altro di aprirsi e di chiudersi a sua posta il Paradiso”.
Vigeva dunque l’abitudine che i fidanzati, nel giorno di San Pietro, si presentassero alla “zita” con una bella chiave per aprire il suo cuore (o, suppongo, per chiuderlo a chiave a scanso di divagazioni pericolose…). Si racconta inoltre che i giovani, per dichiarare il loro amore a una ragazza, con l’aiuto di un complice (oggi si direbbe “un gancio”), le regalassero il famoso dolcetto a forma di chiave; se la fanciulla accettava il dono, il fidanzamento era garantito (c’è quindi da immaginarsi che nel giorno di san Pietro siano sbocciati molti futuri matrimoni).
Dopo la seconda guerra mondiale il rione fu abbandonato e la festa non si celebrò più. È però rimasta la tradizione di preparare le “chiavi di san Pietro”, anche se è improbabile ormai che un ragazzo osi presentarsi da una “picciottedda” con una chiave sia pure biscottata: potrebbe essere frainteso e anziché un fidanzamento potrebbe derivarne una “sciarra”…