Una sentenza di Ovidio e il problema della “akrasìa”

All’inizio del VII libro delle “Metamorfosi” di Ovidio viene descritta l’impetuosa passione di Medea per Giasone. La fanciulla lotta a lungo, ma non riesce a dominare con la ragione il suo “furor” dissennato (“luctata diu, postquam ratione furorem / vincere non poterat”, vv. 10-11); inizia allora un tormentato soliloquio, analizzando il sentimento che la divora. Cerca dunque di liberarsi dalla passione: «Scuoti via dal tuo petto verginale le fiamme in esso suscitate, / se puoi, infelice. Se potessi, sarei più saggia: / ma mi trascina contro la mia volontà una forza sconosciuta, e una cosa mi consiglia la passione, / un’altra la mente: vedo le cose migliori e le approvo, / ma vado dietro alle cose peggiori» (“video meliora proboque, / deteriora sequor”, vv. 20-21).

Come si vede, la Medea delle Metamorfosi appare come un personaggio contraddittorio, oscillante tra la razionalità vacillante (ratio) e la passione devastante (furor): «“Ratio” e “mens” le suggeriscono di rimanere figlia pia […] di Eeta, della sua barbara terra, della

sua stirpe reale (è Medea stessa a chiamarsi “regia virgo”, v. 21); “furor” e “cupido” la spingono a sperimentare lo sconosciuto» (A. M. Wasyl, “Le metamorfosi di Medea in Ovidio e Draconzio”, su “Eos” XCIV, 2007, p. 84).

In questo passo colpisce la profondità della sententia di Medea, consapevole – invano – di conoscere quali sarebbero le cose migliori (in questo caso, rinunciare all’amore per un uomo straniero e interessato soltanto alla conquista del vello d’oro), ma incapace di perseguirle e propensa invece al peggio (cioè, la resa alla passione, con le conseguenze che ne seguiranno e condurranno, in prospettiva, al crudele abbandono da parte di Giasone e alla conseguente terribile vendetta di Medea, che ucciderà i figli da lui avuti).

La locuzione ovidiana «Video meliora proboque, deteriora sequor» è passata in proverbio, codificando la debolezza degli esseri umani, che quasi sempre sanno che cosa (teoricamente) sarebbe giusto e lo approvano pienamente, ma non riescono ad “andar dietro” alle cose migliori, restando succubi delle peggiori. 

I versi di Ovidio furono più volte imitati: San Paolo li riecheggia nella sua Lettera ai RomaniIo so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio», VII 18-19), Petrarca li riprese nel suo Canzoniereco la morte a lato / cerco del viver mio novo consiglio, / et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio», nella canzone 264, “I’ vo pensando, et nel penser m’assale”), Locke li cita nel suo Saggio sull’intelletto umano, Foscolo vi si ispira nel sonetto “Non son chi fui: perì di noi gran parte” («Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio», v. 13); e non mancano altri significativi riscontri.

Secondo il filosofo norvegese Jon Elster la massima ovidiana riprende il concetto aristotelico (cfr. Etica Nicomachea VII) di akrasìa, cioè la “mancanza di forza etica” (ἀκρασία da ἀ- privativo + κράτος “forza”), la “debolezza” della volontà, che provoca un’irrazionale “impazienza di godere”; un esempio mitico ne è, ad es., il desiderio di Ulisse di ascoltare il canto delle sirene.

L’akrasìa è dunque la sensazione generale che “si debba” fare qualcosa, senza che però necessariamente si riesca a decidere di farla. Ne deriva spesso la tendenza alla “procrastinazione”, cioè a rimandare sempre alcune attività importanti, pur comprendendo che solo svolgendole si raggiungerà il proprio obiettivo (un atteggiamento piuttosto diffuso negli studenti meno determinati e volitivi).

Secondo gli psicologi il comportamento “akratico” prevale quando la distanza temporale che ci separa da un premio è troppo grande: la mancanza di un riscontro positivo immediato (ad es. un buon voto dopo una faticosa preparazione o la riuscita di una dieta alimentare) mortifica le aspettative e induce a rinunciare a obiettivi ritenuti poco allettanti, optando invece per altre attività più piacevoli benché effimere. Il risultato però è una condizione di stand-by, di pigrizia, anche di larvato pentimento (perché, per l’appunto, ci si rende conto di “seguire il peggio”) e persino di infelicità.

Come reagire all’akrasìa? Come fare per opporsi ai seducenti richiami della pigrizia e del soddisfacimento immediato dei propri desideri?

Gli psicologi hanno studiato numerose tecniche in proposito: anzitutto la consapevolezza del problema appare già un primo passo per risolverlo; per dirla con Ovidio, se io “seguo il peggio” (“deteriora sequor”), è importante però che io capisca e approvi ciò che è meglio (“video meliora proboque”). Poi occorrerebbe una pianificazione, consistente nel fissare dei “micro-obiettivi” graduali, dei traguardi progressivi inizialmente facili da raggiungere, che consentano di avvicinarsi alle mete prefissate facendo un passo alla volta (“step by step”), creando una lista delle cose da fare (“to-do-list”) e avvalendosi magari dell’aiuto di qualcuno (un amico, un familiare, un “coach”) che possa sbloccare le consuetudini paralizzanti.

Alla suddetta analisi prevalentemente psicologica vorrei aggiungere però un corollario di tipo politico: quante volte accade che alcuni politici (o presunti tali), pur consapevoli di quale sarebbe il cammino corretto da percorrere, scelgano invece la via più breve benché palesemente peggiore? Quanti leader (più o meno improvvisati) operano le scelte più facili e immediate senza alcuna lungimiranza, senza prevedere i possibili “effetti boomerang” delle loro decisioni affrettate, senza valutarne a fondo i rischi e le controindicazioni?

Molte crisi di governo (volendo fare un esempio a caso…) si eviterebbero sicuramente se esistesse una classe politica meno superficiale, anzi – come avviene dalle nostre parti – se esistesse veramente una classe politica vera e propria, che non deleghi ai “tecnici” la guida del Paese, che sappia fare e attuare programmi sociali concreti, che proceda compatta nelle riforme da attuare, che non riduca l’attività (pseudo)politica solamente a una ridicola e perenne campagna elettorale, che abbia – infine – la statura nazionale e internazionale per governare onestamente ed efficacemente i milioni di persone che ad essa si sono affidati.

Ma tant’è: vediamo e approviamo le cose che si dovrebbero (e si potrebbero) fare; ma non riusciamo a farle e inseguiamo sempre il peggio (illudendoci che il peggio sia meglio…).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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