If you can dream it, you can achieve it!

Esattamente quattro anni fa, mercoledì 8 agosto 2018, lasciammo in pullman New York, diretti alle Cascate del Niagara: un trasferimento di 632 km in un comodo pullman, con una simpatica comitiva italiana guidata da un simpaticissimo ragazzo originario di Ischia, Benedetto (“Ben”). Avevamo preferito il lungo trasferimento in pullman anziché il veloce viaggio aereo proprio per vivere (almeno un po’) l’esperienza “on the road”, che in realtà negli Stati Uniti dovrebbe essere quella principale. E devo dire che, anche col senno di poi, è stata una scelta felicissima.

Abbiamo infatti attraversato il New Jersey e la Pennsylvania; e qui devo soffermarmi su una sosta che può sembrare stupida o futile, ma che in realtà mi ha aiutato meglio a raggiungere il mio scopo quando viaggio, cioè capire mentalità, abitudini e convinzioni di chi vive in un certo posto. Un attuale proverbio neogreco dice: “òpios jirìzi mirìzi” (όποιος γυρίζει, μυρίζει “chi viaggia, annusa”); e a me piace “annusare”.

Erano circa le 10,30 locali ed eravamo nel nord-est della Pennsylvania, nella zona chiamata “Pocono Mountains”. Ci fermammo per una sosta inframattutina a un grande autogrill (lo chiamo così all’italiana, ma in realtà era una specie di minicentro commerciale); e qui vidi una serie di riviste e pubblicazioni disponibili alla libera fruizione degli avventori. In particolare, presi una patinata rivista intitolata “THE COMPLETE POCONO GUIDEBOOK – Menus – Shopping – Thinks to do”.

Ripreso il viaggio in pullman, cominciai a leggerla; e fui colpito anzitutto da una cosa. Da noi come si fa la pubblicità di un locale? Foto della location, riferimento al menu e ai piatti principali, prezzi, promozioni, ecc. e stop. Lì no. In America anche una pubblicazione banale come quella deve essere occasione per parlare del “sogno americano” e per mostrare al prossimo il proprio successo. Infatti il Pocono Guidebook presenta sì i locali, ma inserendo – per ognuno – la storia della famiglia fondatrice, dalle sue origini (quasi sempre straniere,  misere e difficili) al presente esaltante, con tanto di foto celebrative e con l’immancabile gruppo familiare (tipo “royal family”).

Un esempio: il “Mexican bar & grill LA HACIENDA” è proprietà dei messicani Daniel & David Castro. Eccone la storia, che traduco dall’inglese, “come mi riesce” (come direbbe Manzoni); della punteggiatura e della sintassi “parlata” incolpate gli autori:

Questo giovane imprenditore aveva passato anni a fianco di suo padre, vedendolo lavorare in posti differenti tentando di sopravvivere, passando al lavoro molte ore ogni giorno, anno dopo anno, finché suo padre decise di iniziare una nuova attività per poter mantenere meglio la sua famiglia e dare loro una vita migliore, tentando di realizzare il ‘sogno americano’ cui aspiravano quando erano emigrati dal Messico nel 1992. La domanda era: che tipo di attività aprire? Così, dopo aver dato un’occhiata ai suoi genitori, David capì che sua madre e suo padre parlavano sempre del cibo che mangiavano da ragazzi nel loro paese e la frustrazione nel tentar di trovare un posto per mangiare il loro cibo tradizionale, perché anche quando suo padre lavorava nei ‘ristoranti messicani’, capiva che era per lo più americanizzato e non era più il cibo tradizionale messicano, sicché si misero al lavoro per rendere reale il loro sogno, affrontarono situazioni molto difficili per raggiungere il loro obiettivo, ma suo padre gli aveva sempre insegnato che ‘se puoi sognare una cosa, puoi ottenerla’ e sempre avendo fede in Dio. […] Il 27 aprile 2018 hanno visto avverarsi il loro sogno e ora sono felici di dire che questo è un locale dove gli avventori possono venire a gustare il vero cibo messicano fatto nel modo tradizionale”.

In questo racconto ci sono diversi termini tipici dell’“American dream”: “to start a new business” (iniziare una nuova attività), “to put hands on the job” (rimboccarsi le maniche), ”to make a dream a reality” (trasformare un sogno in realtà), “faith in God” (fede in Dio), “to reach a goal” (raggiungere l’obiettivo).

Soprattutto mi ha colpito il motto “If you can dream it, you can achieve it”: “se puoi sognare una cosa, puoi ottenerla”.

In poche righe, ecco l’essenza di un popolo: niente a che vedere con il sogno checcozalonesco del “posto fisso”, con la vita che si ripete di generazione in generazione (tipo Malavoglia verghiani), con la caccia all’assistenzialismo e ai “redditi” regalati dallo Stato per non fare niente.

Altri esempi? Ecco la storia di un certo Bill Van Gilder, che lavorava in un motel, nel 1968 vi conobbe e sposò Vicki, diventò proprietario del locale e lo chiamò “Van Gilder’s Jubilee Restaurant”: iniziarono con solo 20 posti, ma ora ne hanno 120 con un ampio patio esterno; hanno avuto 5 figli, tutti hanno creato a loro volta un loro ristorante, ecc. ecc. Immancabile foto familiare a dimostrazione del tutto, con Vicki che pare la “first lady”.

Ecco anche un italiano, titolare del “Peppe’s bistro”: Peppe venne in America all’età di 14 anni, ha lavorato nel campo dell’edilizia a New York e poi si è trasferito sui Poconos aprendovi nel 1980 il “Peppe’s Ristorante”, oggi visitato da molte acclamate celebrità.

Si potrebbe continuare, ma tiriamo alcune conclusioni. Anche da una banale pubblicazione come questa (ma ne ho avuto conferma parlando con la gente e soprattutto con alcuni nostri connazionali emigrati), negli Stati Uniti chiunque, purché si dia da fare, faccia dei passi avanti, tenti di migliorare, viene apprezzato e stimato qualunque sia il campo in cui opera, il suo livello d’istruzione e il suo “background” sociale; l’ammirazione che riscuote è incondizionata e non inferiore a quella che spetta a un politico importante o a un affermato professionista. E questo vale anche per chi non è “W.A.S.P.”, americano doc; anzi vale soprattutto per chi non rientra in questa categoria privilegiata.

Ora, è fin troppo evidente che dietro tutta questa esibizione di “sogni avverati” c’è da immaginare che in troppi altri casi il sogno sia rimasto tale, che ci siano stati e ci siano fallimenti e che anzi i fallimenti in un Paese come quello siano ancora più tristi e impietosi di quelli (innumerevoli) che si contano dalle nostre parti.

Un insegnamento (non dico un modello) però rimane indiscutibile: quello di una mentalità comunque “costruttiva”, intraprendente, coraggiosa, che ritiene che ogni momento della vita debba essere vissuto al meglio, senza “adagiarsi”, senza scoraggiarsi per le difficoltà, senza arrendersi mai. E solo l’invidia e la preclusione mentale di chi deve per forza criticare le mentalità altrui può inficiare la reale consistenza di questi valori fondanti di un popolo; un popolo che può anche eleggere come suo presidente una figura inqualificabile come Donald Trump, ma che nella sua storia ha dato lezioni di civiltà e democrazia al mondo intero.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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