Alcune espressioni del dialetto siciliano continuano ad essere utilizzate nell’italiano regionale parlato nell’isola, sono perfettamente comprese dalla maggior parte delle persone e a volte rendono un’idea in modo molto più vivace rispetto al loro corrispettivo italiano (ammesso che esso esista).
Farò qui una breve rassegna di termini siciliani (tutti inizianti per A) che risultano particolarmente espressivi ed efficaci.
1) “Affruntàrisi” – Significa “vergognarsi” e propriamente deriva dall’ormai disusato sostantivo “affruntu” (“affronto, vergogna”). Quando un bambino veniva invitato (poveretto!) a recitare in pubblico la poesiola imparata a scuola, se esitava o si scherniva, immancabilmente gli si diceva “Nun t’affruntari!”. D’altro canto, se uno era anche troppo audace e pronto a mettersi in gioco in ogni occasione, il commento (non sempre positivo) era: “Nun s’affrunta ‘i nenti!”.
2) “Affucàrisi” – Alla lettera è “soffocare”, “chiudere nelle fauci la respirazione” (Mortillaro). La situazione tipica dell’“affuccàrisi” si verifica a tavola ove i siciliani, travolti dall’abbondanza delle portate ingerite, “s’affùcanu” spesso rischiando di restarci secchi. Ne esiste una variante nell’italiano regionale: “Miiiii, il bambino si è affogato!”, che farebbe temere ai non siculi che il piccolo stesse annegando (magari con intenzioni suicide…). Non basta: si può essere “affucatu d’i debiti”, cioè “oberato dai debiti” (espressione che di questi tempi rischia purtroppo di tornare fin troppo attuale).
Inoltre, ricordo chiaramente di aver sentito usare questo verbo a Bagheria nel significato di “impadronirsi di”: “s’affucò tutta l’eredità” (viene detto di chi più o meno furbescamente e disonestamente si appropria ingiustamente di beni che non gli spetterebbero).
3) “Agghiri” – Propriamente si usa come avverbio di luogo, nel senso di “verso”, in genere unito a un altro avverbio: “agghiri ddà” significa “verso là, da quelle parti”. Deriva dalla crasi di “a ghiri”, cioè “ad andare”.
Ricordo di aver sentito a Bagheria un meraviglioso e surreale diminutivo per rassicurare sulla non eccessiva lontananza della località indicata: “agghiri ddalìddu”(!!).
4) “Allafannàtu” – Si dice di chi è fin troppo affaccendato, oberato di impegni o di incombenze, preso – insomma – dall’“affanno”; corrisponde a “ansante, trafelato, affaticato” ma è molto più incisivo: “miiiiiiiiii, che sei allafannato! dove devi andare?”
5) “Allicchittàtu” – Sul Mortillaro e sul Traino il termine ha un significato enologico: “dicesi di vino che sente del dolce”; ma nell’uso comune “allicchittatu” è chi si veste tutto elegante per qualche particolare occasione: “sugnu bedda allicchittata” dice la signora orgogliosa della sua “mise”. Un possibile collegamento fra i due significati sta proprio nella “positività” del vocabolo, che indica dolcezza, grazia ed eleganza.
Camilleri non manca di utilizzare il termine nel romanzo “La voce del violino” (1997): “(Montalbano) arrivò in ufficio alle otto e mezza, riposato e allicchittato” (p. 20).
A livello etimologico, si è ipotizzata l’esistenza in latino parlato di un verbo “allicare” (“attrarre”), derivato dall’antico “adlicĕre/allicĕre”.
6) “Ammuttunatu” – Termine riservato prioritariamente alle melanzane (qui in Sicilia anche “melenzane” con la “e”) ripiene (di menta, aglio e caciocavallo) e cotte nella salsa di pomodoro; il vocabolo deriva dallo “spingere” all’interno della melanzana il ricco ripieno (“ammuttari” significa “spingere” e “ammuttuni” è la “spinta”). Esiste anche il tonno “ammuttunatu”: ed è davvero molto saporito…
7) “Annagghiàri” – Stranamente mancante nei vocabolari di Mortillaro e Traina, significa grosso modo “prendere, catturare” (“Si t’ annagghiu, ti rugnu un saccu di lignati!” diceva il padre rabbioso al “picciriddu” discolo in fuga). Vuol dire però anche “rimanere agganciato o bloccato” da qualcuno o qualcosa, senza proprio volere, in una situazione o circostanza: “mi annagghiàru”, cioè “mi hanno beccato a fare questa cosa” che mi scoccia non poco.
Non va confuso con “annigghiari” (che vuol dire “annebbiare, offuscare”, ma anche “rattristare”).
8) “Appizzari” – Ha almeno due significati. Anzitutto vuol dire “appendere” (“appizzari un quadro” o “appizzari i manifesti“, detto quando si sbandiera a tutti una notizia riservata) ma anche “appiccicare” (e si poteva “appizzari un tumpulùni”, cioè “appiccicare” un bello schiaffone a qualcuno, oppure “appizzari ‘a ‘ricchi” cioè “tendere le orecchie”).
L’altro significato comune è “perdere”: “tuttu ci appizzavu!” (“ci ho perso tutto”, lamenta chi ha visto svanire un buon affare).
Un proverbio ricorrente è “appizzàrici u sceccu cu’ tutti ‘i carrubbi” (quando si è avuto un danno doppio: non si è perso soltanto l’asino, che già di per sé ha un valore, ma anche tutto il carico che portava addosso). Ancora oggi si sente dire continuamente “non ci voglio appizzare i soldi!”. A Catania si può dire: “S’appizzau a pasta ‘o funnu” (quando la pasta al forno non viene bene per la cottura sbagliata).
L’etimologia del verbo “appizzari” è incerta: ogni riferimento alla “pizza” pare improprio, mentre c’è chi pensa a un collegamento con “appiccicare” e “appicciare” (= “attaccare, unire insieme”); in latino “ad picea” significava “avvicinare alla pece” e quindi “accendere”.
9) “Attisìri” – Letteralmente “tisu” vorrebbe dire “diritto, disteso”; ma si dice anche di chi sta bene, è vigoroso e anche un po’ petulante. Una ragazza troppo “tisa” una volta destava scalpore e rimbrotti (i ragazzi, invece, “tisi” dovevano essere per definizione). Quando qualcuno è stato male, soprattutto un anziano, se si riprende viene bonariamente definito “tisuliddu”: “mio padre arriviscìu, ora è tisuliddu”.
Parallelamente, “attisìri” significa “riprendere vigore”: “mio nonno attisìu, ora esce ogni giorno”. Si dice anche, metaforicamente, di chi alza un po’ troppo la cresta tendendo a fare lo sbruffone (“troppo attisisti”).
10) “Attrivìtu” – Alla lettera significa “ardito, temerario, sfacciato” (come elenca il vocabolario di Mortillaro); Traina lo ricollega allo spagnolo “atrevido” (“audace, coraggioso, sfrontato, grintoso”) e gli iberici lo rimandano a loro volta al latino “tribuere” (“attribuire”). Io però mi chiedo se abbia qualche parentela con il verbo latino “ad-tĕro” (perfetto “adtrivi” o “attrivi”) che tra l’altro significa “logorare, consumare” e metaforicamente potrebbe essere passato a indicare una persona esperta, “consumata”.
Qui in Sicilia “attrivitu” è una persona vitale, vivace, sempre in movimento, mai musona e rassegnata; e quando qualcuno, notoriamente inerte o ignavo, improvvisamente progredisce in iniziativa e audacia, il commento è: “Mi, come attrivìu!”.
11) “Atturrari” – Altro verbo difficile da tradurre; per Traina significa “porre le cose al fuoco sì che secchino e non ardano né si cuociano; abbrustolire”, con rimando allo spagnolo “torrar” (“arrostire”) e – aggiungerei – al latino “torreo” (“disseccare al sole, arrostire, tostare”). Tuttavia, se è vero che il termine siciliano ha questo valore (e quindi, ad esempio, la mollica “atturrata” è abbrustolita e usata come gustoso condimento “povero” per la pasta), esiste un uso traslato e metaforico: una persona che “atturra” diventa fastidiosa, invadente, insopportabile; “ancora atturri?” si chiede a uno che ci ha veramente esasperato.
Basta per oggi; come si vede da questi esempi con la prima lettera dell’alfabeto, la ricchezza ed espressività della lingua siciliana è davvero straordinaria e, soprattutto, continua a influenzare molti modi di dire comuni e attuali fra i parlanti dell’isola.