Con una novità sconcertante, la scena dell’Elettra di Euripide è collocata in una zona montuosa dell’Argolide, non distante dal confine con la Laconia. Anziché il maestoso palazzo reale degli Atrìdi, agli occhi degli spettatori appare la povera capanna di un povero contadino. La modifica dell’ambientazione, rispetto alle trattazioni tradizionali del mito, non è casuale: la distanza da Argo non è solo “geografica”, ma è soprattutto “ideologica”; allontanare la scena dalla città significa rinunciare al modello eroico tradizionale.
L’effetto iniziale di “aprosdòketon” è accentuato dal fatto che il contadino (in greco αὐτουργός, propr. “chi lavora [la terra] con le proprie mani”, da αὐτός + ἔργον), che pronuncia i primi 53 versi del prologo, dichiara la sua identità soltanto al v. 35, per cui gli spettatori dovevano domandarsi a lungo chi mai fosse questo umile personaggio e che cosa avesse a che fare con il mito di Elettra che essi ben conoscevano.
Nei primi versi il contadino rievoca le vicende passate: l’uccisione di Agamennone (“con l’inganno”, v. 9) da parte di Clitemestra ed Egisto, la presa di potere di Egisto, la fuga di Oreste (salvato da un vecchio pedagogo e affidato al focese Strofio). Ricorda poi come Elettra, “germoglio” della casa (v. 15), gli sia stata data in sposa da Egisto, per evitare il rischio che potesse generare dei figli nobili che potessero vendicare il nonno.
Il pubblico, già sorpreso dalla curiosa ambientazione campestre del dramma, apprende ora che l’umile contadino che recita il prologo è il marito di Elettra. L’innovazione della tradizione mitologica non era una novità assoluta nel teatro greco e specificamente in quello euripideo, ma qui indubbiamente il colpo di scena è notevole, giacché in nessun’altra versione del mito Elettra aveva subìto un simile “declassamento” socio-economico. Inoltre il matrimonio stesso della figlia di Agamennone è importante innovazione, perché la fanciulla era sempre stata presentata come una vergine (il suo nome stesso, da Stesicoro in poi, pareva alludere al suo destino di donna ἄλεκτρος, “senza letto nuziale”).
Il contadino, pur rivendicando la sua antica εὐγένεια (discende da antenati micenei), si definisce ἀσθενής (“spiantato, debole”), riconoscendo la sua “inferiorità” a livello sociale; afferma però di non aver mai “disonorato nel letto” Elettra, vergognandosi di recarle oltraggio (αἰσχύνομαι…/… ὑβρίζειν, vv. 45-46).
Elettra entra in scena al v. 54, venendo fuori dalla misera capanna; indossa vesti squallide e porta una brocca sul capo (ἄγγος). La fanciulla si reca ad attingere acqua alla fonte; non lo fa perché la sua povertà sia così disperata, bensì “per mostrare agli dèi la ὕβρις di Egisto” (v. 59). Subito dopo dichiara apertamente il suo odio per la madre “scellerata” (v. 60) che l’ha cacciata di casa “per compiacere il suo sposo” (v. 61); viene del tutto ignorata la protezione ricevuta dalla madre, cui aveva fugacemente accennato l’αὐτουργός (cfr. v. 28).
La fanciulla trova intollerabile che Clitemestra abbia generato dei figli ad Egisto (v. 62), giacché si è così determinata una paradossale inversione: Elettra e Oreste sono divenuti dei “bastardi”, delle “cose senza importanza” (πάρεργα, v. 63), mentre sono i figli di Egisto ad assurgere al livello di eredi “legittimi”.
Va detto che in questo dramma Clitemestra è volutamente presentata in una chiave meno “negativa” da Euripide, il che avrà un’enorme ricaduta problematica sul matricidio. Vero è che Clitemestra è descritta dalla figlia come donna perversa e ipocrita, ma in realtà apparirà ben diversa: preoccupata e rattristata per la sorte di Elettra e lacerata dal rimorso (“Anch’io non sono così / contenta, figlia, di ciò che ho fatto. / Ahimè, che sciagura i miei piani!”, vv. 1105-1110).
Nella parte successiva del prologo, il contadino si preoccupa per Elettra, non vorrebbe che si esponesse a simili fatiche, lei che è “cresciuta nella ricchezza” (v. 65); a sua volta la giovane dimostra stima per il compagno, in quanto si è rivelato rispettosissimo nei suoi confronti. La “pietas” del contadino costituisce l’esatto opposto della ὕβρις di Egisto: Elettra dunque è ben lieta di alleviare, per quanto le è possibile, la fatica dell’ἐργάτης, dedicandosi alle faccende domestiche mentre lui è al lavoro.
Come osservava Diego Lanza, “Elettra offre un modello di comportamento femminile, e suo marito, il modesto contadino, un modello di comportamento maschile. I loro rapporti, pur non essendo veramente coniugali, sono tuttavia presentati come l’esempio del buon funzionamento di una famiglia ateniese. La donna obbedisce al marito, anche quando questi le sia socialmente inferiore, assolve le funzioni domestiche, non si attarda senza gravi motivi a parlare con estranei, tace quando non è interrogata. L’uomo sa far valere con calma virile la propria autorità, si assume la responsabilità di accogliere gli stranieri in casa, ascolta sua moglie, ma decide da solo. Elettra e il suo sposo contadino mostrano dunque come debba vivere una famiglia nel rispetto dell’ordine tradizionale” (“Il tiranno e il suo pubblico”, p. 126). Qui si è già nel clima culturale da cui nascerà nel IV sec. a.C. l’Economico di Senofonte, in cui Iscomaco e sua moglie incarneranno l’ideale della perfetta coppia che vive in assoluta concordia ed armonia.
Non bisogna però credere che Elettra sia una creatura remissiva; anzitutto, il fatto che il matrimonio non sia stato consumato rende paradossale la sua condizione, facendone una figura “liminale” (tra vergine e moglie). Inoltre questa “moglie a metà” dimostra, nei gesti e nelle parole, la forza smisurata del suo odio, la rabbia per la sua umiliazione, la consapevolezza di essere caduta nella “sventura” (v. 68). I successivi sviluppi del dramma la vedranno sempre più determinata, pronta ad agire per riconquistare il rango che le appartiene, cinica nel ricorrere a tutti i mezzi (compreso l’inganno) per ottenere l’obiettivo prefissato.
In proposito, il mio maestro Umberto Albini evidenziava molto bene un elemento fondamentale in questa Elettra, cioè il rancore per il suo declassamento sociale: “Le mancano vesti e gioielli, alla condizione miserabile in cui si trova fa continuo riferimento, con il Coro, con Oreste, con Clitemestra, il lusso della cui vita la tormenta, la strazia: crede sul serio che la brocca d’acqua che porta sul capo testimoni agli dei i delitti di Egisto. La ferisce che Egisto abiti nei suoi palazzi, la sconvolge che Clitemestra si sia appropriata dei suoi beni… Il suo odio non ha la violenza religiosa del fanatico di giustizia, ma il furore dell’esaltato: è rabbia compressa, eccitazione, veleno” (L’Elettra di Euripide in “Maia”, XIV, 1962, p. 100).
Un breve riferimento al prosieguo del dramma.
Questo, dal punto di vista dell’articolazione del plot, sembrerebbe rientrare fra quelli del riconoscimento e dell’intrigo (ἀναγνώρισις + μηχάνημα), come lo “Ione”, l’“Ifigenia fra i Tauri”, l’“Elena” e il perduto “Cresfonte”. Ma è una falsa impressione, giacché nell’Elettra i due suddetti elementi non conducono affatto ad un lieto fine: dopo il matricidio, infatti, Elettra e Oreste appariranno desolati, svuotati, sfiduciati; né basteranno le profezie del “deus ex machina” Castore a rassicurarli sul futuro che li attende, un futuro che sancirà – in ogni caso – la nuova e definitiva separazione fra i due fratelli. L’intervento conclusivo dei Dioscuri, che assegneranno Elettra in sposa a Pilade e prometteranno l’assoluzione di Oreste ad opera dell’Areopago, risolverà forse teoricamente la situazione ma in realtà apparirà inconsistente a livello etico-religioso.
Del resto i problemi che Euripide pone in questo suo dramma non erano certo di facile soluzione: 1) come si può ancora credere nella validità di un matricidio? – 2) come si può pensare che un dio ordini un’azione così empia ed orribile? – 3) come si può accettare che un atto talmente atroce possa concludere felicemente una saga caratterizzata da innumerevoli altri delitti? – 4) come si può ancora prestare fede in tutto e per tutto al mito?
Una delle più efficaci riproposizioni dell’Elettra euripidea si ebbe con l’omonimo film del 1962 diretto da Michael Cacoyannis, che ottenne una nomination all’Oscar per il miglior film straniero (ne mostro qui la locandina). Protagonista era una giovane Irene Papas, destinata poi a diventare una delle più grandi attrici greche (in Italia interpretò Penelope nella celebre Odissea televisiva di Franco Rossi).