Gli amici di Renzo

Nei “Promessi Sposi” Lucia, la protagonista, non ha amiche. Ha sempre accanto a sé donne più grandi ed esperte di lei (la madre Agnese, la “buona donna” mandata dal cardinale nel castello dell’Innominato, Donna Prassede, la mercantessa); ma non c’è mai accanto a lei una ragazza della sua età.

Eppure nel cap. II, quando si sta preparando la cerimonia nuziale (che poi non si terrà più) nel cortile della casa di Lucia ci sono anche delle “amiche”: «Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine…».

Ma fra queste “amiche” nessuna rimane accanto a Lucia quando viene annunciato il rinvio del matrimonio («Il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla»); e nessuna di loro compare più nel corso del romanzo.

Renzo, invece, di amici ne ha; del resto, in paese è ben noto e stimato («Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo»); e se è vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno, Renzo ha in particolare un amico su cui fare affidamento: si tratta “d’un certo Tonio”, a cui si rivolge quando gli occorrono due testimoni per tentare il “matrimonio a sorpresa” che, nelle intenzioni di Agnese, dovrebbe realizzare con l’astuzia le nozze negate dal curato per le intimidazioni di don Rodrigo.

Renzo va dunque a trovare Tonio, nella sua “casetta”, a poca distanza dalla casa di Lucia e Agnese; e lo trova in un caldo contesto familiare, amorevolmente descritto con potente realismo dall’autore: «lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare». In realtà non c’è molta allegria a tavola: la carestia comincia a farsi sentire e “la mole della polenta” risulta inadeguata al numero e all’appetito dei commensali: «e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere».

Renzo arriva proprio mentre Tonio scodella la polenta sulla “tafferìa” (il largo piatto di legno di faggio su cui veniva servita a tavola). Nonostante i tempi di “magra”, le donne chiedono al visitatore se vuole unirsi a loro nella misera cena («volete restar servito?»); e qui Manzoni non può fare a meno di lodare giustamente la generosità dei contadini (lombardi e non solo): «complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all’ultimo boccone».

Con grande gioia degli altri, però, Renzo afferma di essere venuto «solamente per dire una parolina a Tonio»; e aggiunge che potranno parlare meglio “all’osteria”. Ovviamente questo inaspettato invito è gradito a tutti: «La proposta fu per Tonio tanto più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile».

Renzo arriva a casa di Tonio

Pur nella sua brevità, la descrizione della cena in casa di Tonio appare in forte antitesi con la spocchiosa e luculliana cena che si era svolta in casa di Don Rodrigo (cap. V), dove la carestia era considerata più un provvisorio e sgradevole fastidio che un vero problema e disagio: le grandi sventure colpiscono soprattutto i poveri, rendendo la loro vita (già difficile) quasi impossibile.

Un ulteriore particolare: a casa di Tonio la polenta è “bigia”, cioè grigiastra: infatti la coltivazione del mais, il cereale che rende gialla la polenta, fu introdotta nel Nord Italia solo dopo questa carestia del 1628. Manzoni dunque, esperto agronomo e attento studioso dei particolari storici, cura con scrupolo ogni piccolo dettaglio: la piccola luna bigia scodellata sulla tavola di Tonio è una polenta di grano saraceno, una granaglia povera, come il miglio e la segale (ancora oggi  alla base di piatti tipici come i pizzoccheri della Valtellina o la polenta “taragna”).

Arrivati all’osteria, Renzo e Tonio si siedono «in una perfetta solitudine, giacché la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie»; il menu è molto parco («fatto portare quel poco che si trovava»), ma non manca l’accenno a un “boccale di vino” presto svuotato.

Renzo si rivolge all’amico e «con aria di mistero» gli comunica che, in cambio di un favore, potrà dargli il modo di pagare il suo debito di 25 lire nei confronti di don Abbondio. [Emerge qui un altro aspetto poco lusinghiero della personalità del curato: questi non solo ha chiesto al contadino il pagamento di un anno per l’affitto di un pezzo di terra, ma ha voluto come pegno in garanzia la collana di Tecla, la moglie di Tonio].

Tonio si mostra entusiasta della proposta: «Per diana, se sarei contento! Se non foss’altro, per non veder più que’ versacci, e que’ cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta che c’incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo, per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi addosso, io sto quasi in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E poi, m’avrebbe a restituir la collana d’oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta».

Renzo viene allora al sodo e, dopo aver invitato Tonio al massimo riserbo, gli prospetta il tentativo di matrimonio “a sorpresa” che si appresta a fare con Lucia: «Mi dicon di sicuro che, presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell’e fatto. M’hai tu inteso?».

Tonio aderisce entusiasticamente e, come secondo testimonio, propone di portare “quel sempliciotto” di suo fratello: «Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuta anche la sua parte di cervello». Quanto alla moglie, per giustificare la sua assenza, Tonio le racconterà una frottola: «Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in pace».

La scena è coronata dall’irresistibile descrizione della mimica dei due personaggi: Renzo per due volte mette il dito alla bocca invocando il silenzio sul progetto («Ma…!»), Tonio ribatte «piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto» e pronunciando un sonoro «Poh…!». [E qui vien fatto di pensare che Manzoni, se avesse creato a se stesso meno scrupoli teorici inibitori, sarebbe potuto essere un autore teatrale d’avanguardia e di altissimo livello, creando un teatro di nuova generazione, forse già naturalista e verista e sicuramente in contrasto con la scrittura “alta” del “Carmagnola” e dell’“Adelchi”].

L’indomani, dopo una più frugale cena all’osteria (a base di polpette) con Tonio e Gervaso, Renzo con i due “testimoni” giunge alla casetta di Lucia e Agnese quando ormai è notte. Tutti si avviano dunque verso la casa del curato; qui Tonio bussa alla porta e a Perpetua, che si è affacciata infastidita, comunica di essere venuto per saldare il suo debito: «Ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n’abbia messi insieme degli altri».

L’VIII capitolo, quello della tumultuosa “notte degli imbrogli”, inizia con la celebre domanda che don Abbondio, intento alla lettura, pone a se stesso: «Carneade! Chi era costui?». Dopo qualche esitazione, il curato accetta di ricevere Tonio; e mentre Agnese, fingendo di passare di là per caso, intrattiene astutamente Perpetua con alcuni pettegolezzi paesani, gli altri senza farsi vedere entrano in casa: «tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno».

Tonio si scusa con don Abbondio per l’ora insolita e tira fuori le venticinque berlinghe nuove, «di quelle col sant’Ambrogio a cavallo»; il sacerdote le analizza passandole al setaccio: «preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto». Il visitatore chiede allora al curato di restituirgli la collana di sua moglie e di «mettere un po’ di nero sul bianco» (sacrosanta richiesta, accolta però con fastidio da don Abbondio: «Anche questa! […] Le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo!»).

A questo punto, mentre il curato scrive la ricevuta, avviene di colpo il tumultuoso tentativo di matrimonio: Renzo e Lucia si materializzano improvvisamente davanti al sacerdote e tentano di pronunciare le formule di rito; ma la giovane non arriva a terminare la frase, per la fulminea e inattesa reazione di don Abbondio: «Don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: – e questo… – che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: – Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!».

Il lume cade a terra e si spegne; nel buio pesto regna il caos assoluto, descritto dall’autore con venature irresistibilmente comiche: «Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: – apra, apra; non faccia schiamazzo -. Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: – andiamo, andiamo, per l’amor di Dio -. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento».

Tonio e Gervaso, dopo il tentativo fallito, se la danno a gambe e spariscono nella notte; i promessi sposi invece, poco dopo, lasceranno con Agnese il loro paesello grazie a una barca messa a loro disposizione da Padre Cristoforo («Addio, monti sorgenti dall’acque…»).

In questo episodio emerge perfettamente il carattere di Tonio: intelligente, furbo, un po’ opportunista, attento ai suoi interessi, buon mangiatore e bevitore, ma generoso, affidabile e di buon cuore; e fa sorridere quando “va spazzando con le mani il pavimento” per ritrovare la preziosa ricevuta (chissà se poi l’avrà ritrovata e come si sarà conclusa questa vicenda; ma forse solo lui, da quella notte di “imbrogli”, avrà almeno riottenuto qualcosa…).

Tonio cerca la sua ricevuta per terra…

Ritroveremo Tonio nel capitolo XXXIII del romanzo, in un contesto ben più drammatico.

Nel bel mezzo dell’epidemia di peste, Renzo torna nel suo paesino dopo molto tempo e molte peripezie; mentre si dirige alla casa d’Agnese, nella speranza di trovarla viva e in salute, in una viottola vede «un uomo in camicia, seduto in terra, con le spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in un’attitudine d’insensato: e, a questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo scemo di Gervaso ch’era venuto per secondo testimonio alla sciagurata spedizione». Avvicinandosi, però, Renzo si rende conto che non di Gervaso si tratta, ma di Tonio: «La peste, togliendogli il vigore del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con l’incantato fratello».

Tonio privo di senno

Quando Renzo lo chiama per nome, Tonio alza gli occhi «senza mover la testa»; per due volte Renzo gli chiede se lo riconosca, ma l’amico si limita a ripetere due volte «A chi la tocca, la tocca», restando «con la bocca aperta» e «con un certo sorriso sciocco». Renzo allora, «vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, più contristato».

La peste, che ha operato un livellamento indiscriminato in tutti gli strati della società, qui ha fuso i due fratelli, Tonio e Gervaso, togliendo al primo ciò che lo distingueva dal secondo, cioè l’intelligenza pronta e vivace. La mente sconvolta del malato lo induce a ripetere un’unica battuta (“A chi la tocca, la tocca”) che però, benché ispirata da una mente devastata dal morbo, non appare insensata: senza volerlo, infatti, il povero demente esprime una tragica realtà di cui l’autore è convinto: la sventura può colpire tutti, buoni e cattivi, senza criterio e senza logica (anche a volerla definire “provvida”…); la potente fede cattolica manzoniana fa sempre i conti con il tema dell’enigmaticità del male, con la possibilità (almeno su questa terra) del trionfo del dolore e dell’ingiustizia.

Inoltre la parabola di Tonio evidenzia il “rovesciamento” totale e la metamorfosi che la peste sta operando in quel momento storico: Tonio è diventato Gervaso, don Abbondio è ridotto allo spettro di se stesso e Renzo non è più quello di prima, le sue radici stanno modificandosi, il suo passato viene negato e va trasformandosi in un diverso futuro.

Dopo aver vissuto con amarezza la perdita di Tonio, Renzo ritrova subito dopo un altro amico. Questo amico finora non era apparso nel romanzo, ma Renzo apprende da don Abbondio che è ancora in vita: «In quella enumerazione di morti fattagli da don Abbondio, c’era una famiglia di contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell’età di Renzo a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese. Pensò d’andar lì».

Renzo e l’amico senza nome (cap. 33)

L’amico dunque è rimasto solo; a casa non c’è più nessuno che possa chiamarlo per nome: e infatti nel romanzo questo personaggio non ha nome: la peste cancella le identità sociali, riconduce l’uomo alla sua originaria essenza.

Eppure Renzo, quando va a casa sua e lo trova seduto sull’uscio («sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine»), lo chiama per nome: «gli rispose chiamandolo per nome».

Gli amici fra loro non sono mai anonimi: chiamandosi per nome si conoscono e si riconoscono, si ritrovano, si riuniscono. Solo un amico ormai può tirare fuori dalla soffitta del dolore il nome dimenticato di quell’infelice che non ha più nessuno al mondo.

All’inizio l’amico scambia Renzo per “Paolin de’ morti”, il becchino del paese sempre in cerca di collaboratori per seppellire le tante vittime del contagio; poi esibisce, come ormai è sua abitudine, la sua triste condizione: «Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito!».

I due amici ritrovati, «barattando e mescolando in fretta saluti, domande e risposte» entrano insieme nella “casuccia” deserta.

E lì, «senza sospendere i discorsi, l’amico si mise in faccende per fare un po’ d’onore a Renzo, come si poteva così all’improvviso e in quel tempo. Mise l’acqua al fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché la dimenasse; e se n’andò dicendo: “Son rimasto solo; ma! son rimasto solo!”».

È evidente e commovente il desiderio di quest’uomo di ritrovare una normalità perduta nelle semplici azioni di ogni giorno: «Tornò con un piccol secchio di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli [= robiole, formaggi di latte di vacca], con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla tafferìa, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro del ricevimento».

Come a casa di Tonio nel cap. 6, la polenta scodellata sulla “tafferìa” (il piatto di legno su cui veniva servita a tavola) è il simbolo del calore familiare, qui però solo momentaneamente ricostruito nella disperazione della solitudine.

La peste cancella tutto e riscrive pagine nuove, l’uomo deve “resettare” la sua esistenza: un nuovo Tonio, più dolente, più disperato, ma non meno affezionato e fraterno, rivivrà per Renzo nell’altro amico ritrovato: «E, dopo un’assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo d’essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all’uno e all’altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri». Come sempre, Manzoni delega all’Anonimo del presunto manoscritto ritrovato certi commenti “gnomici”, sentenziosi, che potrebbero stonare nel tono sostanzialmente minimalista che è stato scelto dall’autore.

I due amici si scambiano le notizie sulle loro vicende: «Raccontò anche lui all’amico le sue vicende, e n’ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell’esercito, della peste, d’untori, di prodigi. – Son cose brutte, – disse l’amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; – cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo». Appunto: “anche se la peste sembra aver distrutto ogni speranza e ogni possibilità di felicità, tuttavia la conversazione fra amici è un sollievo: il parlare insieme, la comunicazione interessata, il dialogo riconciliano con la vita e nello stesso tempo ricostituiscono un embrione possibile di solidarietà e di civiltà” (R. Luperini).

L’indomani, dopo aver trascorso la notte in casa dell’amico, Renzo è pronto per ripartire: si recherà a Pasturo da Agnese, e poi andrà a cercare notizie di Lucia. In quel momento di ansia e accoramento, «ritto sulla soglia dell’uscio, con la testa per aria, guardava con un misto di tenerezza e d’accoramento, l’aurora del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo».

L’amico si congeda affettuosamente da lui: «gli disse, come s’usa, di sperar bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare; l’accompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augùri».

Tornò poi, dobbiamo presumere, alla sua ormai rassegnata solitudine, seduto sull’uscio a guardare nel nulla ma forse un poco riconfortato dai momenti di sincera cordialità vissuti con Renzo.

Renzo ritrova l’amico (cap. 37)

I due amici si ritroveranno nel cap. 37: Renzo tornerà raggiante di gioia (e inzuppato di pioggia) dopo aver ritrovato a Milano la sua Lucia; e ancora una volta ritroverà l’amico “sull’uscio”: «Questo, che s’era levato allora, e stava sull’uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata, così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a’ suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento».

Anche questa volta l’amico offre a Renzo la sua ospitalità discreta, ascolta i suoi racconti, condivide (lui che ha perso tutto) la sua gioia, gli restituisce un fagottino che aveva lasciato a casa sua, gli dà da mangiare, da bere e da dormire.

Renzo ricambia aiutando l’amico nel disbrigo delle sue faccende domestiche (sono gli inizi di settembre, si prepara la vendemmia); infatti passa l’intera piovosa giornata «in casa, parte seduto accanto all’amico, parte in faccende intorno a un suo piccolo tino, e a una botticina, e ad altri lavori, in preparazione della vendemmia; ne’ quali Renzo non lasciò di dargli una mano; ché, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a star senza far nulla, che a lavorare».

Forse, sia pure in questa veste così sobria, poche pagine della nostra letteratura hanno saputo descrivere così bene l’amicizia sincera e profonda, come sentimento basilare nell’esistenza umana.

L’amicizia, faro di luce, rischiara e conforta gli uomini, allevia i momenti dolorosi e condivide le gioie senza invidia, senza secondi fini, senza falsità.

La vita continua, la vita riprende: e l’amicizia è il punto di partenza e il supporto indispensabile per raggiungere nuove mete e nuovi traguardi.

P.S.: Una curiosità: a Lecco, nel rione di Acquate, esiste ancora una “via Tonio e Gervaso”: in essa due lapidi descrivono passi del romanzo di Alessandro Manzoni, accanto ad una piccola cappella in condizioni di assoluto degrado e a un “tabernacolo dei bravi” (identificabile con il luogo in cui i bravi di don Rodrigo si fermarono ad aspettare Don Abbondio per minacciarlo).

Via Tonio e Gervaso (Lecco, rione Acquate)

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Pur conoscendo l’argomento, ho letto con gusto le osservazioni critiche così attente ai particolari e approfondite da accurate ricerche storiche.
    Sempre gradevolissimo!
    Approfitto per augurare a te e famiglia un sereno Natale.

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