Quando aveva appena nove anni, mio padre, Salvatore Pintacuda, cominciò a suonare il clarinetto nella banda di Bagheria, assieme a musicanti molto più grandi di lui. Allego una foto, scattata appunto nel 1925.
Totò (così lo chiamavano in famiglia) studiava con grande diligenza e impegno; un musicante di clarinetto, che abitava vicino alla sua famiglia, in via Leonforte, gli diceva: “Ci vogliono note lunghe”; e le note lunghe risuonavano spesso dentro la loro casa (che non era certo grande, essendo abitata da sette persone).
Quando la banda andava a suonare nei paesi vicini in occasione di feste religiose, anche il giovanissimo Totò partiva, col clarinetto e con la sua elegante divisa (acquistati coi sacrifici economici della sua famiglia, giacché non esisteva alcuna sovvenzione comunale per l’acquisto di divise e strumenti).
Suo fratello maggiore, Nino, raccontava un curioso aneddoto. Una volta la banda fu invitata a suonare a Porticello, in occasione dell’annuale festa religiosa. Il palco era stato rizzato nella piazza, non lontano dalla riva del mare. Soffiava un vento fastidioso; ad un tratto una folata di vento fece volar via la partitura che stava sul leggìo posto dinanzi al piccolo suonatore. Tutti pensarono che l’incidente avrebbe compromesso l’andamento del pezzo, giacché Totò suonava come primo clarinetto. Ma lui non si smarrì: continuò a suonare tranquillo, come se i suoi occhi seguissero ancora le note musicali scritte sul foglio. Alla fine vi furono battimani, abbracci e fiori in suo onore.
In quei tempi la banda di Bagheria contava oltre sessanta elementi, ed era il vanto del paese: era composta da molti giovani esecutori, che avevano una grande passione per la musica. Ne allego una foto del 1928 (mio padre è seduto in prima fila, il quarto da sinistra accanto a un baffuto suonatore di piatti).
Il primo direttore fu il Maestro Effetto, che vinse una medaglia in un concorso a livello nazionale; suoi successori furono i Maestri Sardo e Fumarola; con quest’ultimo la banda giunse al massimo sviluppo: egli portò il numero degli esecutori a ottanta e chiamò dei solisti bravissimi per le parti principali.
Le divise e gli strumenti, come ho detto, erano a carico dei componenti stessi della banda; bisognava acquistare le mostrine, lo stemma del Comune, il berretto. Solo ai tempi di Fumarola, il Comune sovvenzionò l’acquisto di alcuni strumenti; furono inoltre stipendiati (saltuariamente, pagandoli col denaro raccolto in occasione delle feste) alcuni solisti.
Le prove avvenivano nel vecchio teatro ubicato nel vicolo omonimo, nei pressi di Villa Butera (nella foto che segue mio padre è il ragazzino seduto a sinistra in prima fila).
Si creò poi a Bagheria, accanto alla banda principale, una piccola banda di ragazzi (tutti inferiori ai vent’anni); in essa mio padre, che frequentava il Conservatorio di Palermo e aveva ottenuto (tra tanti altri) anche il diploma di strumentazione per banda, diresse il gruppo degli strumenti a fiato in legno, mentre Giuseppe Sardina si occupò degli ottoni. I giovani musicanti eseguivano composizioni e trascrizioni musicali realizzate appositamente per loro da mio padre, suonando nelle feste e sostituendo la banda “grande”.
Ormai ventiduenne, intorno al 1938, mio padre fu chiamato da Oreste Girgenti a dirigere la banda del dopolavoro; e fu quella la sua ultima esperienza con la banda, interrotta a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Ma in seguito, in tutta la sua vita, ogni volta che vedeva passare una banda, in qualunque paese o città si trovasse, non poteva celare la sua commozione; e forse, fra i più piccoli di quei musicanti, rivedeva se stesso bambino, con la sua elegante divisa un po’ corta e con il suo clarinetto.
E anche io, che di tutti questi ricordi sono testimone diretto, avverto ancora il fascino delle bande musicali e mi rammarico anzi di vederle sempre meno, confinate nelle feste rionali o patronali o limitate a sporadiche occasioni. L’amore per la musica si univa, in quei ragazzi, al desiderio di rallegrare la gente, di distrarla sia pure per un attimo dalle loro preoccupazioni, di indurla a battere le mani e sorridere.
Del resto, lo diceva anche una celebre canzone di Mina (di Chico Buarque e Antonio Amurri, 1967): “Una tristezza così non la sentivo da mai / ma poi la banda arrivò e allora tutto passò. / […] E tanta gente dai portoni cantando sbucò / e tanta gente in ogni vicolo si riversò / e per la strada quella povera gente / marcia felice dietro la sua banda. / Se c’era uomo che piangeva / sorrise perché / sembrava proprio che la banda / suonasse per lui; / in ogni cuore la speranza spuntò / quando la banda passò / cantando cose d’amor. / La banda suona per noi / La banda suona per voi”…
C’era una trasmissione radiofonica la domenica mattina fine anni sessanta condotta da Mina e questa era la sigla, ascoltarla e sentirmi in una di quelle mattine é un attimo, immediato e transitorio. Grazie per il ricordo e le riflessioni