I carmi 41 e 43 del liber di Catullo si rivolgono, con toni sarcastici e polemici, a una certa Ameana (cfr. XLI, 1, ove però il nome non è leggibile con certezza; inoltre nelle iscrizioni è attestato solo il nome Am(m)ianus, al femminile Am(m)iana).
Nel carme 41 Catullo, con la foga violenta di un moderno “hater”, inveisce pesantemente contro “Ameana puella defututa” (“L’Ameana, fanciulla arcifottuta”, come traduce Mandruzzato): la ragazza, evidentemente una prostituta, gli ha chiesto ben diecimila sesterzi per le sue prestazioni; ma il poeta, facendo anche riferimento alla sua scarsa avvenenza (“con quel naso bruttino anzichenò”), la prende senz’altro per pazza (“non est sana puella”, v. 7) e invoca l’aiuto di parenti, medici ed amici, dato che Ameana evidentemente “soffre di allucinazioni” (“solet esse imaginosa, v. 8).
Ecco il testo del breve carme, seguito dalla traduzione di Enzo Mandruzzato:
Ameana puella defututa
tota milia me decem poposcit,
ista turpiculo puella naso,
decoctoris amica Formiani.
Propinqui, quibus est puella curae,
amicos medicosque convocate:
non est sana puella, nec rogate
qualis sit; solet esse imaginosa.
“L’Ameana, fanciulla arcifottuta,
ne vuole diecimila tondi tondi,
con quel naso bruttino anzichenò,
amante d’un fallito in quel di Formia.
Parenti che ne siete responsabili,
fate venire medici ed amici,
la ragazza sta male. Che cos’ha,
chiedete? Soffre d’allucinazioni”.
Al v. 4 compare un riferimento che chiarisce meglio l’astio di Catullo: Ameana è “l’amante” (questo vuol dire in latino “amica”) del “bancarottiere di Formia” (“decoctoris… Formiani”).
Il termine “decoctor” significa propriamente “debitore insolvente, fallito, bancarottiere” (cfr. il verbo decoquo, che significa letteralmente “ridurre o concentrare cuocendo (un liquido)” e passa a indicare “consumare del tutto il proprio denaro”, quindi “fallire, fare bancarotta”).
Il bancarottiere è facilmente identificabile con Marco Vitruvio Mamurra, un cavaliere formiano che, dopo essere stato legato a Pompeo, era stato comandante del genio militare (praefectus fabrum) nella guerra gallica, alle dipendenze di Cesare. Mamurra aveva accumulato grandi ricchezze, anche con mezzi poco leciti, in Gallia, nel Ponto e in Spagna; a Roma si era anche costruito una casa in marmo sul Celio. In seguito però sperperò tutti i suoi beni e cadde in rovina.
Catullo doveva avere anche motivi personali di antipatia verso questo ricco ufficiale, che evidentemente, con i soldi e con il potere, otteneva spesso notevoli successi amorosi; non a caso il poeta lo soprannomina sarcasticamente “Méntula” (“Membro virile”) e insinua illazioni su una relazione omosessuale tra lui e il suo comandante Cesare.
A Mamurra Catullo dedica ben otto carmi (29, 41, 43, 57, 105, 114 e 115), a testimonianza della sua profonda antipatia nei suoi confronti del cavaliere formiano.
Ancor più noto è il carme 43, nel quale Catullo rivolge un ironico saluto a una fanciulla che si crede bella senza esserlo, paragonandola impietosamente alla sua Lesbia; anche se non ne viene fatto il nome, la replicazione della stessa formula usata nel carme 41 (“decoctoris amica Formiani”, v. 5) rende sicura anche qui l’identificazione con Ameana.
Ecco il testo latino, seguito stavolta dalla traduzione di Guido Paduano:
Salve, nec minimo puella naso,
nec bello pede nec nigris ocellis,
nec longis digitis nec ore sicco,
nec sane nimis elegante lingua,
decoctoris amica Formiani.
Ten provincia narrat esse bellam,
tecum Lesbia nostra comparatur?
O saeclum insipiens et infacetum!
“Salve, ragazza dal naso non piccolo,
dai piedi non belli, dagli occhi non neri,
le dita non affusolate, la bocca
non asciutta, la parlata non elegante,
amica del bancarottiere di Formia!
E i provinciali dicono che sei bella?
Ti confrontano con la mia Lesbia?
Che mondo volgare e stupido!
Come si vede, in questo carme Catullo elenca, con una serie di ironiche litoti, i difetti fisici di Ameana: il naso “non piccolo”, i piedi “non belli”, gli occhi “non neri”, le dita “non affusolate”, la bocca “non asciutta” (il che evidenzia la sua salivazione eccessiva), la “parlata non elegante” (dimostrandone la scarsa finezza dei modi). L’elenco “negativo” dei pregi mancanti costituisce un capovolgimento del topos letterario consistente invece nell’elencazione delle qualità fisiche della persona amata (cfr. ad es. Filodemo di Gadara, A.P. V 121 e 132).
Al motivo del risentimento personale si aggiunge l’omaggio galante a Lesbia, che davvero non può essere minimamente paragonata con questa ragazza “coatta” e volgare.
La bellezza straordinaria di Clodia/Lesbia (definita “pulcherrima tota” dal poeta, cfr. 86, 5) non è mai descritta da Catullo nei particolari, ma dal ritratto di Ameana si deducono “ex contrario” alcune sue caratteristiche: il naso piccolo, i piedi aggraziati, gli occhi neri, le dita affusolate, la grazia e lo spirito fine. E che qualcuno possa considerare Ameana paragonabile a Lesbia, è – per Catullo – prova evidente dell’insipienza e della rozzezza della sua epoca.
Nell’esclamazione finale (“O saeclum insapiens et infacetum”, “Che mondo volgare e stupido!”) i termini usati dal poeta si contrappongono ad altri (come facetus, urbanus, venustus, elegans) che invece “esprimono tipicamente la visione neoterica, che privilegia i valori della finezza, dello spirito elegante propri della società più raffinata della capitale e che non può trovare spazio e comprensione in provincia… Naturalmente l’enfasi di questa esclamazione finale è alquanto scherzosa. Probabilmente ricalca formule esclamative usuali sulla corruzione o la decadenza dei tempi” (M. Citroni).
Il componimento è dunque rilevante anche per la caratterizzazione del concetto di bellezza femminile romana nel I sec. a.C., costituendo anche un documento di storia del costume e di estetica.
Per quanto riguarda il riferimento conclusivo alla “provincia”, che apprezza la bellezza (?) di Ameana, si intende in genere che Catullo alluda alla Gallia Cisalpina, cui fu concessa la cittadinanza romana nel 49 a.C.; Lesbia vi era nota, perché vi era stata col marito Quinto Metello Celere, che ne era stato governatore nel 62 ed era poi morto nel 59. Emerge qui il disprezzo del poeta ormai “inurbato” (anche lui proveniva da quella provincia) per i suoi conterranei, ritenuti ormai rozzi e privi di ogni senso estetico.