La coda alla vaccinara

Tra i più famosi piatti della tradizione romana spicca la “coda alla vaccinara”. Il nome deriva forse dai conciapelli e “vaccinari” del Rione Regola, sulla sinistra del fiume Tevere, che erano addetti alla macellazione degli animali e tenevano per sé le parti meno pregiate del bestiame, che non erano richieste dai ceti più abbienti.

La “coda alla vaccinara” è dunque la “regina” del cosiddetto “quinto quarto”, ovvero di ciò che resta della bestia dopo che sono state vendute le parti migliori e più pregiate; del  “quinto quarto” fanno parte, oltre alla coda, la trippa, la “pajata”, il cuore, la milza e le frattaglie.

Nonostante le umili origini, con il tempo la “coda alla vaccinara” non è stata più confinata ai poveri, diventando anzi un piatto quasi da “gourmet”.

Oggi viene preparata in molte trattorie e ristoranti della Capitale, ma non sempre a regola d’arte, anche per la lunga preparazione necessaria: infatti la coda di bue viene ben lavata, tagliata in pezzi regolari e stufata per almeno tre ore, a fuoco basso e coperta, con un tritato di verdure e pomodori pelati, finché la carne non inizia a staccarsi dall’osso. Il piatto sarà pronto quando la carne risulterà tenera ma non sfilacciata.

La lunga cottura permette al sugo di insaporirsi molto bene; con lo stesso sugo si può condire la pasta (preferibilmente i rigatoni), ricavando così in un colpo solo un primo ed un secondo molto appetitosi. C’è chi alla coda di bue preferisce quella di vitello, la cui carne resta più tenera e richiede una cottura meno lunga.

Gli ingredienti per 4 persone sono: 1200 g di coda di vitellone, una cipolla, una carota, uno spicchio d’aglio, 20g di burro, 4 cucchiai di olio evo, 5-6 canne di sedano, 500 g di pomodori passati, un bicchiere di vino rosso secco, un cucchiaio di cacao amaro (facoltativo), sale e pepe.

La “coda alla vaccinara” presenta tuttavia delle varianti: c’è ad esempio chi aggiunge i pinoli, l’uvetta e i “gaffi” (straccetti di guancia di bue che insaporiscono ulteriormente il piatto tradizionale).

Domenica scorsa, nel mio recente week-end romano, ho mangiato “da Otello” a Trastevere; dopo un doveroso antipasto (fiori di zucca, carciofo alla “giudìa”, focaccia calda con olio e rosmarino), mentre mia moglie sceglieva delle rassicuranti “polpette (bone) al sugo con patate” (testuale), io ho deciso di riprovare la “coda”, che in vita mia avevo assaggiato solo una volta, in un ristorante pretenziosetto al centro di Roma, senza esserne però entusiasmato più di tanto.

Ebbene, la “seconda opportunità” che ho dato al celebre piatto romano ha avuto un esito senz’altro positivo: il piatto che ho consumato (accompagnato da un contorno di cicoria “ripassata”) era davvero squisito, anche se ha richiesto tempo e impegno, poiché dovevo inabissare più volte coltello e forchetta in una scodella che, in un mare di sugo, nascondeva all’interno i pezzetti di carne e di osso, da distinguere e dirimere uno per uno. Confesso che ho dovuto fare ricorso alla “scarpetta” per non perdermi alcuni passaggi essenziali… Il prezzo della “coda” con annessa cicoria è stato di 16,50 euro; e diciamo che ci stava tutto, anche per l’abbondanza (forse persino eccessiva) della portata.

La “coda alla vaccinara” al ristorante “Otello” a Roma

Una brava poetessa romana, Sabrina Balbinetti, ha dedicato alla “coda” questa simpatica poesia dialettale: «Ner Rione Regola, tra li vaccinari, / ner core antico della Roma ricca / ‘n mezzo a li palazzi centenari / è nata ‘na ricetta ch’è ‘na “chicca”. / La coda fin dai tempi… era la cosa / che distingueva la bestia dar cristiano; / doppo avella assaggiata, ‘a sora sposa, / capì che er bono…nun è solo umano! / Se prima è stato ‘n piatto popolano / riservato alla classe macellaria / da quarche tempo, sembrerà ‘n po’ strano… / è ‘r fiore all’occhiello della culinaria! / -Pia ‘n par de chili de coda de vitella / e metti l’ojo ner coccio della nonna / si nun ce l’hai…vabbene ‘na padella / ce fai colori’ mezza cipolla bionna / butta la coda quanno s’è appassita / rosola tutto a foco moderato / sfuma cor vino (ne abbasteno du’ dita) / e aggiungi er sellero tutto sminuzzato / er pommidoro…. mejo la passata / sale, peperoncino (in abbondanza) / fai coce fino a quanno è spappolata.. / …è na ricetta pe’ riempi’ la panza!!!!».

Posso confermare pienamente l’ultimo verso della poesia: la mia “panza” si è tanto riempita che, anche se quella domenica ho percorso a piedi in tutto 19 chilometri girando per la capitale (Samsung Health, spietato persecutore di ognuno di noi, mi ha contato 25.436 passi), per smaltire del tutto i postumi del pranzo ho dovuto aspettare diverse ore.

Stavo già per rassegnarmi a mutare il mio cognome in “Pintacoda”, quando un provvidenziale Aperol Spritz e una sobria insalata mi hanno riportato in carreggiata, rendendomi pronto a nuove e maggiori imprese.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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