Il “Cappello di Napoleone”

A venti chilometri da Palermo si trova Capo Zafferano, un incantevole promontorio a strapiombo sul mare; appartiene al territorio di Santa Flavia e da esso, procedendo verso occidente, inizia il Golfo di Palermo sul quale si affaccia la Conca d’Oro.

Capo Zafferano visto da Solunto

Da Bagheria si raggiunge il mare ad Aspra: 4 km di discesa, una discesa che oggi purtroppo ha perso un elemento magico che esisteva ancora quando ero bambino, cioè l’inebriante e penetrante odore di mare, ricco di iodio, che arrivava sin quasi alla stazione di Bagheria e diventava sempre più forte man mano che ci si avvicinava alla costa.

Da Aspra si seguono le indicazioni per Mongerbino e si percorre poi la strada litoranea sotto il Monte Catalfano. Sulle pendici del versante sud-orientale di questo monte, di fronte a Capo Zafferano, si trova il sito archeologico dell’antica Solunto, la “piccola Pompei” della Sicilia, dal quale è possibile godere un fantastico panorama.

Questa zona ha (cosa non insolita in Sicilia) una storia millenaria: sulla costa del promontorio si aprono alcune grotte che hanno restituito resti ossei di “Elephas mnaidriensis” (una specie estinta della famiglia “Elephantidae”, vissuta a Malta e in Sicilia nel Pleistocene, circa 150.000 anni fa); vi si sono trovati anche materiali litici del Paleolitico superiore e frammenti ceramici assimilabili alla Cultura di Castelluccio.

Scheletro di Palaeoloxodon mnaidriensis
esposto al MUSE (Museo delle Scienze) di Trento

Qui la modernità, che pure ha fatto e fa di tutto per assassinare la memoria del passato, non riesce a spazzare via il sapore di mito antico che promana da questo posto incantato.

In questo tratto costiero si aprono numerose calette tra le rocce, molte delle quali regalano splendide viste sul profilo inconfondibile del Capo, con un mare cristallino, trasparente e con sfumature di smeraldo. Particolarmente suggestivo è il faro, incastonato tra gli scogli.

Il faro a Capo Zafferano

Qui si trova anche il famoso “Arco azzurro” di Mongerbino, reso famoso da una celebre pubblicità dei Baci Perugina: si tratta di una passerella naturale di roccia dolomitica, posta a una quota di 11 metri sul livello del mare che collega le due sponde di un piccolo e grazioso fiordo.

La celebre pubblicità dei Baci Perugina – Arco Azzurro (Mongerbino)

Visto da lontano, questo incantevole tratto di costa sembra mostrare il profilo di un antico cappello; non a caso qualcuno, fantasiosamente, l’ha definito “il Cappello di Napoleone”. Com’è noto, Bonaparte amava indossare un «petit chapeau», il celebre bicorno di forma semplice, in feltro nero o in castoro, senza galloni ad eccezioni di una coccarda, foderato di satin; aveva iniziato ad indossarlo all’epoca del Consolato per essere ben distinto dai generali e dai marescialli al suo seguito. Questi cappelli gli erano confezionati dal cappelliere Poupard e oggi si possono ammirare nei vari musei napoleonici (il più antico tra loro, indossato alla battaglia di Marengo, si trova conservato al Musée de l’Armée di Parigi).

Uno dei cappelli di Napoleone – MUsée de l’Armée, Parigi

Due anni fa, dopo tantissimi anni, sono tornato a Solunto, portandovi per la prima volta mio figlio Andrea. Dopo avere visitato le rovine dell’antica città fenicia, ellenistica e romana, siamo andati a goderci lo spettacolare panorama.

Panorama dalle rovine di Solunto – 18 giugno 2021

E, come capita quando rivediamo un luogo che ci è particolarmente caro, ho provato grande emozione nel rivedere di fronte a me il Capo Zafferano.

Ho avuto allora un flash memoriale, una “madeleine” di ricordo indotta anche dal venticello che veniva dal mare e attenuava la forte calura di giugno.

Quando ero “picciriddu”, a undici anni, villeggiavamo in una casetta di campagna di mio zio Tanino, a Sòlanto, fra Santa Flavia e Casteldaccia. Stavamo immersi nella campagna, con le canalette d’acqua che correvano fra i filari di limoni; e mi piaceva immergermi fra gli alberi, paragonandomi a un avventuroso esploratore in cerca di nuovi mondi.

Una volta mi spinsi sino al limite estremo della proprietà, dove sorgeva un antichissimo muro a secco, su cui era appoggiata una vecchia scala a pioli. Dopo un attimo di esitazione, salii con una certa circospezione, per vedere che cosa ci fosse al di là.

E fui folgorato dall’apparizione di Capo Zafferano.

Capo Zafferano

Era il 1965, c’era un silenzio assoluto rotto solo dalle folate del vento. Il “Cappello di Napoleone” si ergeva di fronte a me, identico a come doveva essere apparso ai Fenici, ai Greci, ai Romani, agli Arabi, ai Normanni, agli Svevi, a tutti gli abitanti che nei secoli hanno vissuto in questa isola unica al mondo.

Non so perché questa immagine mi sia rimasta così impressa; ci sono cose che non si spiegano in un ragazzino di quell’età e ci sono ricordi tenaci che non riusciremo mai a spazzare via dalla nostra mente. Ricordo però che ebbi immediatamente l’impressione che quell’antico promontorio mi volesse rivelare un segreto indicibile e inspiegabile.

Quando scesi giù dalla scala, tornai alla casetta di campagna; emozionatissimo, dissi a mio padre che avevo visto “una montagna bellissima”. E lui, sorridendo, disse soltanto: “Era il cappello di Napoleone”.

Qualche giorno dopo mi portò a Solunto, per farmi ammirare Capo Zafferano; ecco una foto scattata allora:

12 agosto 1965 – Capo Zafferano visto da Solunto
1981 – Io e mio padre, con lo sfondo di Capo Zafferano

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. I tuoi ricordi incantano e diventano anche di chi legge, tanta è l’emozione che rilasciano.
    La scoperta che racconti fa venire in mente la scoperta del mare di Carlino.
    Ognuno di noi, credo, si porta dentro una madeleine, o forse più di una.
    A me capitò qualcosa del genere quando, anche io a undici anni, ascoltai alla radio “La pioggia nel Pineto”.
    Ecco, forse è stata la mia Madeleine più intensa, la più forte.

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