Come è noto, il camilleriano commissario Salvo Montalbano ama molto il cibo: “era sempre stato goloso e ingordo fin da picciliddro, tanto che suo patre lo chiamava ‘liccu cannarutu’ che significava esattamente goloso e ingordo” (L’odore della notte, p. 93).
In casa il commissario si affida alla cameriera Adelina, che gli cucina leccornie e gliele mette in frigo o nel forno.
Adelina è una donna ignorante e un po’ scorbutica (in particolare non sopporta Livia, l’eterna fidanzata di Montalbano); è la madre di due pregiudicati, il minore dei quali era stato arrestato dallo stesso Montalbano; ma al commissario la cameriera e i suoi familiari sono affezionati, apprezzandone l’umanità e la correttezza.
Con Adelina esiste un’organizzazione perfetta: “Con Adelina capace che stavano una stagionata intera senza vedersi. Montalbano ogni settimana lasciava sul tavolo di cucina i soldi per la spisa, ogni trenta giorni la mesata. Però fra di loro si era stabilito uno spontaneo sistema di comunicazione, quando Adelina voleva più denaro per la spisa, gli faceva trovare sul tavolino il caruso, il salvadanaro di creta che lui aveva accattato a una fiera e che teneva per billizza; quando era necessario un rifornimento di calzini o di mutande, gliene metteva un paio sul letto. Naturalmente il sistema non funzionava a senso unico, magari Montalbano le diceva cose coi mezzi più strani che però l’altra capiva” (Il cane di terracotta, p. 143).
Nel racconto Gli arancini di Montalbano, che dà il titolo all’omonima raccolta pubblicata da Mondadori nel 1999, in occasione del fine anno il commissario riceve vari inviti per il cenone: reduce da una delle ricorrenti “sciarriatine” con la fidanzata lontana Livia, Montalbano viene invitato dal questore Burlando, dall’anziana maestra Clementina Vasile-Cozzo, dal preside Burgio e da Mimì Augello. Ma in realtà Montalbano è solleticato dall’idea di mangiare da solo, evitando il bailamme dei festeggiamenti: il suo carattere schivo e solitario lo induce a detestare tutte le occasioni mondane, che lo infastidiscono e lo rattristano anziché rallegrarlo; per lui gli inviti reiterati sono una “litania”, una “novena” fastidiosa e insopportabile.
L’ultimo invito, però, è il più allettante di tutti: Adelina gli propone di aspettare l’anno nuovo a casa sua, consumando gli arancini da lei preparati e che tanto gli piacciono.
Ricordando nei minimi dettagli la ricetta dei deliziosi arancini, il commissario vede svanire ogni dubbio: “Gesù, gli arancini di Adelina! Li aveva assaggiati solo una volta: un ricordo che sicuramente gli era trasùto nel Dna, nel patrimonio genetico. Adelina ci metteva due jornate sane sane a prepararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si prepara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa (senza zafferano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!”.
Unico timore del commissario è che uno dei due delinquenti figli di Adelina si metta nei guai all’ultimo momento rovinando la festa…
Gli effetti esaltanti della degustazione degli arancini di Adelina sono descritti anche altrove, ad es. nel romanzo Il gioco degli specchi (2011): “Gustare l’arancini d’Adelina era ‘na spirenzia assoluta, esistenziali, ‘na vota che uno l’aviva assaggiati ne consirvava eterna mimoria come di un paradiso pirduto. Perciò l’offerta di tornari per una sira nel jardino dell’Eden non era cosa che si potiva arrefutare a cori liggero” (p. 39).
Per quanto riguarda gli “arancini” (“arancine” a Palermo e nella Sicilia occidentale), anche Leonardo Sciascia era stato attratto da questo piatto, tanto da scriverne la ricetta ne L’apollo buongustaio (dicembre 1962), un almanacco gastronomico curato dal suo amico poeta Mario Dell’Arco; eccone uno stralcio: “L’arancina vuole l’olio d’oliva: di quello coi suoi buoni gradi di acidità, col vivo sapore dell’oliva, di brillante e denso colore… Perché l’arancina deve avere croccante crosta, appunto del colore dell’arancia che comincia ad appassire: e per ottenerla bisogna sia immersa completamente nell’olio bollente, e tirata al punto giusto… Bisogna badare a non friggerne molte con lo stesso olio, ché prendono se no scuro colore e gusto più acre, da pizzicare la gola. Sembrano semplici da farsi: del riso impastato con uova e pecorino, un ripieno di tritato e cipolla in soffritto, la modellatura di una palla; e prima di gettarle nella padella una passata nell’uovo battuto e poi nel pane grattugiato. E invece richiedono un dosaggio un’attenzione una spesa da non credersi”.
Quanto all’annoso dibattito fra il maschile “arancino” in uso nella Sicilia orientale (corrispondente a una forma “puntuta”, che alcuni dicono ispirata all’Etna ma altri riferiscono a ben altro…) e il femminile “arancina” tipico di Palermo e della Sicilia occidentale (di forma rotonda), sembra superfluo affrontarlo: i derby inter-regionali sono, come si sa, lo sport preferito in tutta Italia e questa disputa sembra quindi destinata a protrarsi in eterno. Un colpo al cerchio e uno alla botte, del resto, è stato dato addirittura dall’Accademia della Crusca con il seguente commento ufficiale: “Il gustoso timballo di riso siculo deve il suo nome all’analogia con il frutto rotondo e dorato dell’arancio, cioè l’arancia, quindi si potrebbe concludere che il genere corretto è quello femminile: arancina. Ma non è così semplice”.
Sempre secondo la Crusca, entrambe le forme sono corrette anche se “il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno nell’impiego formale – perché l’opposizione di genere è tipica nella nostra lingua, con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal frutto” (es. “il melo / la mela” e quindi “l’arancio / l’arancia / l’arancina”).
Non aveva dubbi in proposito il catanese Federico De Roberto che in un passo dei suoi Vicerè parla di “arancine di riso grosse ciascuna come un mellone”.