La strage di Bologna e il racconto di un amico

Quarantatrè anni fa, il 2 agosto 1980 alle 10,25, nella sala d’aspetto di II classe della stazione di Bologna, gremita di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, esplose un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, causando il crollo dell’ala Ovest dell’edificio. La bomba era composta da 23 kg di esplosivo, una miscela di 5 kg di tritolo e T4 detta «Compound B», potenziata da 18 kg di gelatinato (nitroglicerina a uso civile). L’esplosione causò la morte di 85 persone e il ferimento o la mutilazione di oltre 200.

La strage alla stazione di Bologna: 2 agosto 1980

Fu uno dei più gravi attentati verificatisi negli anni di piombo, assieme alle stragi di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia e del treno Italicus del 4 agosto 1974.

Non è questa la sede per discutere sui processi, sulle ipotesi relative a mandanti ed esecutori materiali di questa orrenda strage, sui depistaggi, sulle polemiche infinite.

Preferisco invece citare la testimonianza personale del mio caro amico Toti Palazzolo, che quel giorno si trovava alla stazione di Bologna: infatti un destino miracoloso ha voluto che lui e sua moglie scampassero a quel terribile attentato.

“Il Resto del Carlino” del 3 agosto 1980

Toti, bancario, non ha mai avuto velleità letterarie; ma tredici anni fa, in occasione del trentennale della strage, aveva scritto un breve racconto per raccontare quella sua esperienza, ottenendo pure un premio letterario a Cava dei Tirreni.

Gli ho chiesto di rimandarmi quel racconto per presentarne qui una sintesi; credo infatti che le testimonianze di vita vera possano risultare, nella loro semplicità e sincerità, più coinvolgenti di certi romanzi; soprattutto quando, come avviene in questo racconto (intitolato “Una breve vacanza”), tali testimonianze si accompagnano all’esternazione di sentimenti veri e profondi, come l’amore per la famiglia, la profonda fede religiosa, la riflessione esistenziale.

Toti e la moglie Carmela Volpe, dopo il matrimonio celebrato due anni prima, non si erano concessi nessuna vacanza: gli impegni della vita e una difficile gravidanza, seguita dalla nascita del primogenito Giuseppe, li avevano costretti a scartare l’idea di un viaggio. Ma, come racconta Toti, «ormai il difficile era passato: nostro figlio aveva compiuto un anno da pochi giorni, era sano e sereno, quindi potevamo prenderci alcuni giorni di vacanza affidandolo ai nonni».

La famiglia Palazzolo nel 1980

Non era stata una scelta facile, ma infine i due sposi confermarono la prenotazione in un albergo di Rimini, lasciarono il bambino dai nonni e presero il treno da Palermo a Bologna, «con l’animo pieno di sentimenti contrastanti: malinconia per aver lasciato sia pure per pochi giorni nostro figlio, contentezza al pensiero di poter stare un po’ rilassati e spensierati».

A Napoli, alle due di notte, salì sul treno una donna napoletana “verace”, con tre bambini ed il fratello, che andava a trovare il marito emigrato in Svizzera: «La signora si era portata appresso un po’ di tutto: melanzane, pomodori, vino, basilico, prezzemolo, aglio, olio e cartoline illustrate in quantità; tutta roba per il marito, diceva, e per i suoi amici, che, lassù in Svizzera, non mangiavano mai di queste cose così buone. La signora si era accovacciata nell’unico posto libero vicino al finestrino ed i suoi due figli più piccoli si dimenavano fra i nostri piedi, chiedendo di seguito acqua, caramelle, pane, formaggio, frutta, dolci… tutte cose che, ovviamente, si trovavano nei sacchetti di plastica che erano stati collocati sui ripiani superiori. […] Verso le tre e mezzo del mattino, quando già mia moglie aveva cortesemente rifiutato due melanzane, una “testa d’aglio ed un mazzetto di basilico, la signora tirò fuori le cartoline illustrate, ricordo di Napoli, che portava al marito: paesaggi incantevoli, squarci pittoreschi, cieli azzurri (ma quanti drammi, quanta miseria, quante sofferenze, quanto grigiore, dentro quelle immagini variopinte della vecchia Napoli!). Insistette tanto la signora affinché mia moglie scegliesse qualche cartolina, ma, vedendone l’imbarazzo e la perplessità, scelse lei due immagini della Madonna di Pompei e disse: “Una tenetela voi, ‘signurì’; l’altra portatela, quando ritornerete a casa, a vostra madre. E che la Madonna vi aiuti e vi protegga sempre!”».

L’indomani alle 9,30 il treno, con tre ore di ritardo, entrò nella stazione di Bologna. Consultato l’orario sul tabellone, i due viaggiatori videro che il primo treno utile per Rimini era dopo le 11; ma un gentile ferroviere disse loro che, se volevano partire prima, dopo qualche minuto (alle 10 circa), sarebbe transitato un treno internazionale in ritardo, diretto proprio a Rimini. Toti allora andò a fare i biglietti e a comprare i cornetti e il caffè caldo. Qui gli cedo la parola:

«Entrai nell’atrio della biglietteria e consultai l’orologio: erano le nove e quarantacinque. Mi misi in fila per i biglietti. […] Uscii e mi diressi verso il bar ed il mio sguardo cadde nella sala d’aspetto di seconda classe: quanta gente, considerai. Mi colpì una numerosa comitiva di ragazzi con zaino a tracolla, che aveva addosso un’aria di spensieratezza e brulicava, quasi ossessionata dalla voglia di partire per le vacanze, fra la sala d’aspetto ed il marciapiede. […] La gente cercava forse ciò che non aveva trovato tutto l’anno: pace e serenità, due cose che non si ricercano nelle ferie estive, ma che si devono trovare prima di tutto nel nostro animo ed in ogni giorno della nostra vita. […] Dopo avere ritirato i cornetti ed i caffè, tornai di nuovo alla cassa per pagare, alla cassiera bruna e simpatica, il bicchiere di plastica richiesto in più nel quale portai via i caffè. Uscii dal salone del bar, dove notai che alcune persone erano comodamente sedute ai tavoli in cerca di frescura, sorbendo granite e bibite: “Beati loro”, pensai, “io ancora per rinfrescarmi e ripulirmi devo affrontare due ore di viaggio!”. Imboccai il sottopassaggio e, proprio in quel minuto, fu annunciato il nostro treno che aveva subito anche un cambiamento di binario. Allungai allora il passo e, giunto da mia moglie, cambiammo marciapiede con le valigie, i cornetti ed il caffè. Che faticaccia i sottopassaggi con le valigie! Subito arrivò il treno che aspettavamo e, quasi contemporaneamente, inaspettato, nel binario accanto, ne arrivò un altro con la stessa destinazione: Rimini. Dopo qualche istante di indecisione, pensammo di prendere quello che era giunto per primo in stazione. Salimmo sul treno, ci sistemammo e guardai l’orologio della pensilina: erano le dieci e dieci. Il treno sul quale eravamo saliti aveva esattamente due ore di ritardo […]  Partimmo prima dell’altro treno e ringraziai il mio intuito perché così saremmo arrivati prima. Saranno state le dieci e venti circa, minuto più minuto meno, quando il treno iniziò lentamente a muoversi. Aprimmo i finestrini e ci fumammo soddisfatti una rilassante quanto dannosa sigaretta, sognando una fresca doccia ed una tonificante dormita al nostro arrivo a Rimini».

Le “dieci e venti circa”: dunque, Carmela e Toti partirono da Bologna grazie a un treno imprevisto in ritardo, soltanto cinque minuti prima che l’inferno si scatenasse alla Stazione Centrale.

Il racconto prosegue: una sosta inspiegabile a Faenza (ove “l’altoparlante annunziò che il traffico per Bologna era sospeso per motivi di pubblica sicurezza”), le strane parole di un ferroviere (che accennò alla possibile esplosione della caldaia dell’Albergo Diurno a Bologna), l’arrivo all’albergo di Rimini all’ora di pranzo.

Toti prosegue: «il portiere ci accolse dicendoci di telefonare subito a Palermo, perché i nostri familiari avevano chiesto già più volte di noi. […] Considerammo che si trattasse di una telefonata per accertarsi della buona riuscita del viaggio. Non nascondo che la cosa ci infastidì e decidemmo, quindi, di andare prima a pranzare e poi a telefonare. Ci eravamo appena seduti, ed avevo preso il primo boccone, quando ci chiamarono di nuovo al telefono. Mi alzai e andai subito scocciato a rispondere: era la voce di mio fratello che mi chiedeva se eravamo vivi. La presi come una battuta e risposi di sì. […] Non mi chiese nient’altro, mi salutò con una strana voce e mi passò mia madre che, con un filo di voce, mi domandò notizie del viaggio. Mi affrettai a salutare quasi risentito, la pregai di avvertire i miei suoceri che tutto andava bene e aggiunsi che ci saremmo sentiti nei giorni a venire. Ritornai in sala pranzo e riferii a mia moglie chi era e che da Palermo chiedevano, preoccupati, nostre notizie. Concludemmo che si trattava di preoccupazioni inspiegabili e superflue. Subito dopo pranzo, passeggiando, andammo a prendere un caffè in un bar che era vicino al nostro albergo e dotato di televisore. Dopo aver con calma sorbito il nostro caffè, stavamo per andare via, quando sentimmo la sigla di inizio del Telegiornale. […] Non appena finì la sigla ed apparve l’immagine, io e mia moglie sentimmo un brivido percorrerci tutto il corpo. […] Macerie, polvere, autoambulanze, carabinieri, polizia, vigili del fuoco, sirene, gemiti, urla, pianti, feriti, corpi straziati. Ci stringemmo forte la mano, io e la compagna della mia vita, senza guardarci per non scoppiare in lacrime, quando scorgemmo, in una inquadratura divenuta ormai storica, l’orologio della pensilina del primo binario tragicamente fermo: segnava le dieci e ventisei minuti!

Alle sue spalle il salone del bar, parte della biglietteria e l’ingresso del sottopassaggio non c’erano più, sventrati da una barbara e tremenda esplosione, dovuta ad un vile attentato terroristico. […]

Immediatamente due pensieri ci colpirono.

Il primo per nostro figlio: se fossimo anche noi, per una serie di coincidenze periti in quel feroce attentato, lui sarebbe rimasto solo nella vita e questa idea ci straziava il cuore. Ma Iddio, nella sua bontà infinita e nella sua immensa misericordia, aveva forse avuto pietà di lui e ci aveva concesso di continuare la nostra unione terrena ed il nostro arduo compito di genitori.

Il secondo pensiero è stato il manifesto intervento, in particolare maniera nei nostri confronti, della Madonna, Madre di Dio e Madre nostra, che, salvandoci la vita, è stata il seme del nostro futuro terreno e conseguentemente delle nostre anime.

Non sapremo mai, cara signora napoletana, il tuo nome, non rivedremo mai in questa terra il tuo volto, non ci offrirai più melanzane, pomodori o mazzetti di basilico, ed anche quando dovessimo incontrarci non li vorremmo. Tu sei stata l’“angelo del Signore”, l’ambasciatrice di Maria, che ci ha donato due passaporti per continuare la nostra vita terrena finché Dio vorrà».

Il racconto si avvia alla conclusione:

«Quando nel viaggio di ritorno sono ripassato da Bologna, mi sono recato lì, nella buca che ha lasciato l’esplosione, proprio nel luogo che era stato la sala di aspetto di seconda classe, dove avevo visto quei ragazzi festanti e dove io e mia moglie avremmo dovuto aspettare la nostra coincidenza per Rimini. Ci ho messo i piedi dentro pregando e piangendo silenziosamente. […] Istintivamente mi sono chiesto: “Perché, mio Dio, perché? Perché è successo questo? Perché tanta gente è morta? Perché hai voluto che noi vivessimo?” Non ho avuto risposta a questi interrogativi. Dio vuole che le trovi io le risposte, col mio essere cristiano quotidianamente, con il mio amore verso il prossimo, con il mio agire in seno alla mia famiglia ed alla società affinché possa essere, con la mia fede, testimone della sua potenza e della sua onniscienza, fino a quando Egli, pago della mia opera, riterrà opportuno chiamarmi a sé».

E le due cartoline variopinte della Madonna di Pompei donate dalla donna napoletana? Toti diede la prima, come promesso, alla suocera; la seconda è rimasta sempre con lui, anche nei momenti più tristi e difficili della vita.

Ma oggi il pensiero, mio, di Toti e di tantissima gente perbene, va a quelle 85 persone che morirono dilaniate dall’esplosione, vittime di un disegno turpe e disumano che aborre da qualunque presunta “ideologia”.

Ci sarebbero voluti troppi “angeli del Signore” per salvare tutte quelle persone sventurate, colpevoli di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. E la loro morte appare assurda, ingiusta, ingiustificabile e ingiustificata.

Di fronte al ricordo delle vittime, torna quella domanda angosciante, rischiarata dalla fede in alcuni, senza risposta per altri: “Perché tanta gente è morta? Perché, Dio, hai voluto che noi vivessimo?”.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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