Altri quattro vocaboli siculo-italiani

Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana. Eccone altri quattro.

1) “Cafuddari” – Verbo che significa propriamente “percuotere, picchiare”.

Una volta si “cafuddàvano” i “picciriddi” quando facevano qualche marachella (“ti cafùddu!!”), magari usando anche la “cucchiaredda” (cucchiaio di legno usato in cucina). Non c’era telefono azzurro o buonismo che tenesse, fino a due generazioni fa, di fronte a queste perentorie punizioni, che si estendevano anche alla scuola, dove – come attesta giustamente il film “Baarìa” di Giuseppe Tornatore – non mancavano insegnanti che credevano di far meglio il loro mestiere picchiando col righello i ragazzi rei di studiare poco o di comportarsi male. Quintiliano evidentemente, molti secoli prima, aveva predicato invano (“Caedi vero discentes minime velim”, “Non vorrei affatto che gli studenti fossero picchiati”).

Il verbo “cafuddari” però è usato anche per un altro tipo di percossa, rivolta stavolta al portafoglio e non alle terga di una persona. Di recente per strada ho sentito un signore che, conversando con un altro, profetizzava cupamente che al rientro di settembre “ci cafùddano nuovi aumenti”; il che dimostra come l’irriverente “vox populi” tenda a smentire le miracolistiche promesse di un governo che aveva giurato di ridurre le tasse (senza capire però che per “flat tax” si intendeva l’“appiattimento” generale delle nostre tasche…).

Una curiosità etimologica: il verbo “cafuddari”, secondo Traina, deriverebbe da “fuddari” (“unire strettamente”) preceduto dalla sincope della preposizione greca “katà” (κατά): questa nobile origine etimologica, però, non attenua il dolore (fisico o economico) che si prova quando qualcuno ci “cafudda”.

2) “Scantatu” – Vocabolo ormai universalmente noto, grazie anche alla lingua camilleriana; indica chi è “spaventato”, chi prova “scantu”, cioè una grande paura. Il termine è usato comunemente dagli studenti prima di un’interrogazione o un esame, dal malato che pende dalle labbra dei medici, dalla vittima di un sopruso o una violenza; proprio per questo, si esorcizzano tali timori con l’espressione “sia scantu e sia niente” (a indicare una paura che si rivela eccessiva e infondata). Esiste anche la variante “scantatizzu”, che rimprovera una persona troppo pavida, che si spaventa anche della sua ombra.

In Sicilia lo “spaventato” (o “scantatu” o “spirdatu”) è un personaggio indispensabile del presepe: si tratta di un pastore che allarga le braccia con gli occhi sbarrati, stupito o (appunto) intimorito da ciò che sta vedendo. Al contrario delle altre statuine, lo “spaventato” non svolge nessuna attività: non vende niente, non bada alle pecore, non suona la zampogna, non porta legna o altro; se ne sta davanti alla capanna con le braccia aperte e lo sguardo rivolto verso il cielo, con la testa reclinata all’indietro e l’aria stupefatta e turbata. Siccome non sembra che la capanna con il bue e l’asinello possa costituire una visione così terribile, si è ipotizzato che il timore del poveraccio derivi dalla vista di qualcosa di soprannaturale (l’angelo o, soprattutto, la cometa: da qui l’espressione “spavintatu ra stidda” che si sente in certe zone della Sicilia o “‘ncantatu d’a stija” in Calabria). Il pastore timoroso qui in Sicilia è passato anche in proverbio: quando qualcuno si mostra pavido o eccessivamente preoccupato per qualcosa, viene senz’altro definito “scantatu r’u prissepe”.

3) “Schiffaratu” – Vocabolo che indica chi non ha “niente da fare”, o perché in quel momento non ha un impegno pressante o perché di natura sua “scioperato” (Traina). Quando si vede qualcuno che ozia stravaccato sul divano o che bighellona pigramente avanti e indietro, gli si può chiedere: “Schiffaratu sei?” o anche “Non ne hai chiffàri?”.

Il termine “chiffàri”, a sua volta, è una sorta di proposizione relativa sostantivata (da “che fare”), che indica “occupazione, faccenda” (Traina): “aju chiffàri” è la scusa perentoria che si adduce quando non si vuole prendere un altro impegno.

Divertentissimo è il diminutivo, che sentivo usare a Bagheria, “chiffarieddu” (“aju chiffarieddu”), che si può rendere malamente con “ho qualcosina da fare”, ma che in realtà mette genialmente il diminutivo sulla parte verbale.

A me capita assai raramente di essere “schiffaratu”, perché non sono mai stato capace di starmene a lungo inerte a non far niente. Privato del mio lavoro (per motivi anagrafici) proprio negli anni in cui stavo imparando a farlo, mi invento ogni giorno il “chiffàri” e mi annoio mortalmente quando non ci riesco.

4) “Scunchiutu” – Propriamente indica una persona sciupata, emaciata, dimagrita; ma il termine si usa anche e soprattutto in senso psicologico, alludendo a qualcuno che è triste e depresso: “Perché sei così scunchiutu? Che ti è successo?”.

“Scunchiutu” è l’alunno che ha preso un brutto voto, è il cittadino che riceve la tassa sui rifiuti e osserva i cumuli di immondizia che troneggiano nella sua strada, è la persona depressa che si attorciglia nelle sue depressioni senza reagire.

Anche qui, non manca il diminutivo eufemizzante: “scunchiuteddu mi sembri”.

Nel chiudere, si potrebbe fare una riflessione collaterale proprio sulla costante presenza, nelle espressioni siciliane, dei diminutivi, in realtà usati come esorcismi lessicali e come ingegnosa contraddizione di spiacevoli realtà: ecco dunque che un omicidio diventa un’“ammazzatina”, la fuga di due innamorati ostacolati dalle famiglie è soltanto una perdonabilissima “fuitina”, un ferimento magari con tanto di sfregio è solo una “firitina” e la grandiosa festa palermitana di Santa Rosalia non è che un “fistinu”.

La separazione, sicilianissima, fra teoria e realtà, o meglio tra la realtà e il modo di descriverla, è un tratto così tipico che nessun “continentale” potrà mai acquisirlo mentalmente se non a prezzo di anni e anni di soggiorno da queste parti; ed è procedimento quanto mai contagioso, per cui (viceversa) occorrono anni e anni di lontananza dall’isola (pagati al prezzo esorbitante della nostalgia) per riuscire a modificare il proprio modo di pensare e di parlare.

Ma stiamo divagando, è domenica, è agosto, molti di voi saranno “schiffarati” (si spera non “scunchiuti” o “scantati”); non intendo dunque “cafuddare” ulteriori divagazioni lessicali o pseudofilosofiche.

Buona ultima domenica di agosto a tutti!

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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