Lo “sfincione” bagherese non ha niente a che fare con il suo omonimo palermitano: è più alto, più spesso e soffice, soprattutto è senza pomodoro (quindi è uno sfincione “bianco”); è di forma circolare o rettangolare e viene condito con cipolle scalogne, acciughe salate, tuma di pecora (formaggio tradizionale siciliano), mollica di pane tostata mista a caciocavallo grattugiato, sale, pepe, origano, olio extravergine.
Esiste una variante più recente, con la ricotta fresca di pecora; ma per me resta filologicamente meno corretta, anche se indiscutibilmente gustosa.
Ovviamente lo sfincione “baarioto” ha una storia: quando il Principe Giuseppe Branciforte di Butera si trasferì nella sua residenza fuori Palermo, dopo un complotto fallito contro la corona spagnola per ottenere l’indipendenza della Sicilia, con lui vennero i servitori e i cuochi di corte, chiamati “Monzù”, che erano soliti preparare per le feste natalizie lo sfincione, secondo una ricetta che risaliva alle monache del monastero di San Vito. Nella residenza bagherese, però, i cuochi “reinventarono” la specialità del convento utilizzando le materie prime disponibili nel territorio, soprattutto le sarde della vicina frazione marinara di Aspra e la locale tuma di pecora.
Con l’andare del tempo, a Palermo il popolo modificò la ricetta a favore di ingredienti ancora più poveri, ossia pomodoro e cipolle; nacque così la variante “rossa” palermitana. Ma mentre nel capoluogo lo sfincione, già agli inizi del Novecento, divenne un prodotto gastronomico accessibile al popolo, un “cibo da strada” che poteva essere acquistato nei mercati, a Bagheria lo sfincione rimase a lungo tipico della tradizione familiare.
Le massaie “baariote”, nel periodo compreso fra la vigilia dell’Immacolata e l’Epifania (anzi “i Tre Re”, come si dice in paese), avevano l’abitudine di portare al proprio forno di fiducia la “conza”, ovvero il condimento con cui creare il proprio sfincione, avvalendosi poi dell’esperienza del fornaio, anzi – più specificamente – del “maestro sfincionario”.
Ciò avveniva soprattutto in occasione del cenone della Vigilia di Natale: quando ero ragazzo, ricordo che alcune mie zie erano addette a questa lunghissima seduta presso il forno, dove vegliavano accuratamente sulla preparazione dei numerosi “sfincioni” che sarebbero stati poi gustati la sera (altro che “cena di magro” che si fa in altre parti d’Italia…). Il proprio sfincione veniva accuratamente “segnato” in modo da renderlo riconoscibile, per non confonderlo con quello di qualche altra famiglia, che magari poteva introdurre varianti personali non condivisibili.
Oggi, grazie a una capillare attività di marketing e di valorizzazione intrapresa da varie associazioni di panificatori bagheresi, i consumi dello sfincione “bianco” sono molto aumentati a Palermo ed è possibile trovarlo tutto l’anno nei migliori supermercati della città. Gli abitanti del capoluogo, poi, essendo per natura “manciunazzi” e profondamente accoglienti verso tutti i cibi genuini e saporiti, hanno accolto con grande simpatia il fratello maggiore del loro sfincione rosso: e diversi miei amici palermitani gradiscono molto lo sfincione bagherese quando riesco a farglielo trovare sulla mia tavola.
Del resto, come ha scritto Mario Liberto, scrittore e storico della gastronomia siciliana, “lo sfincione bianco di Bagheria è una pietanza che merita l’appellativo di piatto gourmet e non più solo cibo da strada, per il valore nutritivo, per la qualità e la genuinità dei prodotti a km zero utilizzati. Lo sfincione diventa così un vero esemplare ambasciatore del territorio, per l’equilibrio del gusto che lo rende delizioso, unico ed impareggiabile al palato, con una forte caratterizzazione e una presentazione e un’estetica che lo accosta ad un prodotto di alta cucina”.
Il successo dello sfincione bagherese è ormai inarrestabile (non a caso diversi “influencer” gli hanno di recente dedicato dei video). Ed è un vero peccato che Peppuccio Tornatore non abbia ritenuto di inserire una scena dedicata allo sfincione locale nel suo bellissimo film “Baarìa” (2009); ma, da quello che posso dedurre, non mi pare che il grande regista sia un buongustaio, “liccu cannarutu” come tanti altri suoi concittadini (fatta eccezione per una scena in cui il protagonista divora quattro enormi “mafalde” con panelle). Chissà però che Tornatore in un prossimo film, tornando finalmente a trarre ispirazione dalla sua Sicilia, non colmi questa lacuna.
Nel frattempo, tanti auguri a tutti per una serena vigilia di Natale, con o senza sfincione bagherese (ma preferibilmente con…).