Cinquantasette anni fa, nella notte fra il 20 ed il 21 aprile 1967, in Grecia avvenne un colpo di stato, che portò al potere una sanguinosa dittatura militare.
Il golpe fu attuato dai colonnelli Georgios Papadopoulos, Nikolaos Makarezos e Ioannis Ladas: alle 2,30 un reggimento di paracadutisti occupò il Ministero della Difesa; contemporaneamente le truppe si impadronirono dei centri di comunicazione, del parlamento e del palazzo reale. La Polizia Militare arrestò in poche ore più di 10.000 persone, compreso il primo ministro Panagiotis Kanellopoulos.
In Italia, il 21 aprile, il Telegiornale della sera (l’unico della giornata, allora) iniziò con le sconvolgenti immagini dei carri armati che presidiavano le strade principali di Atene.
Il colpo di stato arrestò violentemente l’azione del governo di Georgios Papandreu, leader dell’Unione Democratica di Centro, che aveva avviato dei provvedimenti radicalmente nuovi: una politica sociale di ridistribuzione del reddito, una diminuzione dei privilegi accordati ai capitali stranieri, una pianificazione dello sviluppo economico, una modernizzazione e democratizzazione dell’istruzione pubblica, una liberalizzazione del regime.
Dopo il golpe dei colonnelli, come afferma la voce narrante nel celebre film di Costa-Gavras “Z – L’orgia del potere” (1969), «i militari hanno proibito i capelli lunghi, le minigonne, Sofocle, Tolstoj, Mark Twain, Euripide, spezzare i bicchieri alla russa, Aragon, Trotskij, scioperare, la libertà sindacale, Lurçat, Eschilo, Aristofane, Ionesco, Sartre, i Beatles, Albee, Pinter, dire che Socrate era omosessuale, l’ordine degli avvocati, imparare il russo, imparare il bulgaro, la libertà di stampa, l’enciclopedia internazionale, la sociologia, Beckett, Dostojevskij, Čechov, Gorki e tutti i russi, il ‘chi è?’, la musica moderna, la musica popolare, la matematica moderna, i movimenti della pace, e la lettera ‘Ζ’ che vuol dire ‘è vivo’ in greco antico».
Innumerevoli furono gli oppositori, reali o presunti, che furono arrestati, torturati e uccisi; fra loro fu Alexandros Panagulis, celebre anche per la sua relazione con la giornalista italiana Oriana Fallaci, che ne raccontò la storia nel bellissimo libro “Un uomo” (Rizzoli, 1979).
La dittatura dei colonnelli durò sette anni, che videro molti eventi drammatici (ad es. la fuga del re dal Paese, la repressione della rivolta studentesca al politecnico di Atene il 14 novembre 1973, un tentato colpo di stato a Cipro contro l’arcivescovo Makarios).
Dopo il golpe Yannis Ritsos, uno dei più grandi poeti della Grecia moderna, a causa delle sue idee di sinistra, fu deportato nell’isola di Leros e poi a Samo. Durante i primi mesi di prigionia compose, fra le altre, 32 poesie che furono poi riunite nel volume “Ripetizioni”; fra queste liriche, propongo oggi, per commemorare tutte le vittime di quella feroce dittatura, “Dopo la sconfitta”.
Ecco anzitutto il testo della poesia, nella traduzione di Nicola Crocetti:
DOPO LA SCONFITTA
Dopo la disfatta degli ateniesi a Egospòtami, e un po’ più tardi
dopo la nostra ultima sconfitta,
finite le libere discussioni, finiti anche gli splendori di Pericle,
il fiorire delle Arti, i Ginnasi e i simposi dei sapienti. Ora
pesante silenzio nell’Agorà e mestizia, e l’impunità dei Trenta Tiranni.
Tutto (anche ciò ch’è più nostro) avviene in contumacia, senza la minima
possibilità di un ricorso, d’una difesa o apologia,
d’una sia pur formale protesta. Le nostre carte e i nostri libri al rogo;
l’onore della patria nel pattume. E se avvenisse mai che ci consentissero
di chiamare a testimoniare un vecchio amico, non accetterebbe per timore
di patire anche lui la nostra sorte – e a ragione, il tapino. Perciò
stiamo bene qui, – forse potremo perfino stabilire un nuovo contatto con la natura
guardando dietro il filo spinato un pezzo di mare, le pietre, le erbe,
o una nuvola al tramonto, profonda, violetta, emozionata. E forse
un giorno si troverà un nuovo Cimone, guidato in segreto
dalla stessa aquila, che scavi fino a scoprire la punta di ferro della nostra lancia,
arrugginita, consunta anch’essa, e la trasporti solennemente
in processione funebre o trionfale, con musiche e corone, ad Atene.
21 marzo 1968
Il testo insiste soprattutto sul tragico “ripetersi”, nella storia ellenica, di analoghi momenti di prevaricazione e violenza: il poeta ricorda infatti l’antica sconfitta ateniese ad Egospòtami nel 405 a.C. e prefigura altre, terribili sconfitte che si verificano nel tragico presente vissuto dal suo Paese.
Conseguenza immediata è la perdita della libertà (“finite le libere / discussioni”, vv. 2-3), la fine di ogni splendore artistico e culturale. Sono palpabili, ora (v. 4), il “pesante silenzio nell’Agorà” e l’avvilente “mestizia” (del popolo oppresso), mentre domina “l’impunità dei Trenta Tiranni” (cioè il potere violento dei militari al potere).
Ogni decisione viene presa “in contumacia” (v. 5), in assenza degli interessati, che possono solo subìre i provvedimenti arbitrari imposti dall’alto. Impossibile ogni “difesa o apologia” (v. 6), ogni “sia pur formale protesta” (v. 7).
I libri dei poeti vanno “al rogo” mentre “l’onore della patria” finisce (nonostante i roboanti proclami nazionalistici del regime) “nel pattume” (v. 8). Anche se fosse consentito ai condannati “chiamare a testimoniare un vecchio amico” (v. 9), questi si rifiuterebbe, per il fondato timore di subire la stessa sorte.
Il poeta, con amara ironia, osserva il terribile luogo in cui è imprigionato, esprimendo un sarcastico “hic manebimus otpime” (“stiamo bene qui”, v. 11); ipotizza, addirittura, un “nuovo contatto con la natura” (v. 11), osservando i pochi elementi paesaggistici (“un pezzo di mare, le pietre, le erbe, / o una nuvola al tramonto”, vv. 12-13) che si intravedono “dietro il filo spinato” (v. 12) del lager.
Unica speranza è l’arrivo di “un nuovo Cimone” (il figlio di Milziade che, guidato da un’aquila, aveva ritrovato la tomba di Teseo a Sciro); costui potrà ritrovare sottoterra “la punta di ferro” (v. 15) della lancia dei prigionieri, “arrugginita” (v. 16) ma ancora degna di essere trasportata “in processione funebre o trionfale” (v. 17) ad Atene.
La poesia è icastica, lapidaria, priva di ogni compiacimento artistico; sconfina quasi in una prosa disadorna, con versi lunghissimi tanto quanto lunghe erano la prigionia e l’attesa della liberazione. Lo stesso Ritsos, che compose questi versi “usando le ginocchia per tavolo” (come scrisse Louis Aragon nella prefazione alla raccolta), aveva orgogliosamente prevenuto ogni possibile critica:
«Non ci sentiamo affatto / inferiori, non abbassiamo gli occhi. Nostre uniche pergamene / tre parole: Makrònissos, Ghiaros e Leros. E se maldestri / dovessero sembrarvi un giorno i nostri versi, ricordate solo che furono scritti / sotto il naso delle guardie, la baionetta puntata sempre alle costole». (da “Eracle e noi”, 23/3/1968). [Makrònissos, Ghiaros e Leros erano tre località in cui si trovavano i campi di concentramento istituiti dal regime dei colonnelli].
E quella “baionetta puntata sempre alle costole” è anche metafora potente di tutte le prevaricazioni che nel corso dei secoli sono avvenute (e purtroppo ancora avvengono) ai danni della cultura, della libertà e della dignità dell’essere umano.
P.S.: Ecco il testo originale di Μετά την ήττα (“Dopo la sconfitta”):
Ύστερ’ απ’ την πανωλεθρία των Αθηναίων στους Αιγός Ποταμούς, και λίγο αργότερα
μετά την τελική μας ήττα, — πάνε πια οι ελεύθερες κουβέντες μας, πάει κι η Περίκλεια αίγλη,
η άνθηση των Τεχνών, τα Γυμναστήρια και τα Συμπόσια των σοφών μας. Τώρα
βαριά σιωπή στην Αγορά και κατήφεια, κι η ασυδοσία των Τριάντα Τυράννων.
Τα πάντα (και τα πιο δικά μας) γίνονται ερήμην μας, χωρίς καθόλου
τη δυνατότητα μιας κάποιας προσφυγής, μιας υπεράσπισης ή απολογίας,
μιας έστω τυπικής διαμαρτυρίας. Στη φωτιά τα χαρτιά και τα βιβλία μας·
κι η τιμή της πατρίδας στα σκουπίδια. Κι αν γινόταν ποτέ να μας επέτρεπαν
να φέρουμε για μάρτυρα κάποιον παλιό μας φίλο, αυτός δε θα δεχόταν από φόβο
μήπως και πάθει τα δικά μας — με το δίκιο του ο άνθρωπος. Γι’ αυτό
καλά είναι εδώ, — μπορεί και ν’ αποχτήσουμε μια νέα επαφή με τη φύση
κοιτώντας πίσω από το σύρμα ένα κομμάτι θάλασσα, τις πέτρες, τα χορτάρια,
ή κάποιο σύννεφο στο λιόγερμα, βαθύ, βιολετί, συγκινημένο. Κι ίσως
μια μέρα να βρεθεί ένας νέος Κίμωνας, μυστικά οδηγημένος
από τον ίδιο αϊτό, να σκάψει και να βρει τη σιδερένια αιχμή απ’ το δόρυ μας,
σκουριασμένη, λιωμένη κι αυτήν, και να την κουβαλήσει επίσημα
σε πένθιμη ή δοξαστική πομπή, με μουσική και στεφάνια στην Αθήνα.
Λέρος, 21.III.68