Il 14 maggio 1960 il Movimento Sociale Italiano ufficializzava il suo sesto Congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza.
In quel momento (dal 26 marzo) era in carica il governo Tambroni, che era un monocolore formato dalla Democrazia Cristiana, ma che si reggeva sul voto del MSI e dei monarchici; per la prima volta nella storia repubblicana, i voti dei neofascisti erano stati essenziali per raggiungere la maggioranza.
La protesta per la decisione di tenere il congresso del MSI proprio a Genova fu fortissima: dopo due cortei, il primo svoltosi il 25 giugno e il secondo il 28 giugno, il 30 giugno la Camera del lavoro proclamò lo sciopero generale.
Il corteo del 28 giugno fu concluso da un comizio di Sandro Pertini, savonese, ex combattente partigiano contro il nazifascismo e futuro Presidente della Repubblica (dal 1978 al 1985). Di quel discorso credo sia opportuno, nella giornata odierna, rievocare il contenuto.
Pertini, rivolto alla “gente del popolo”, a “partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali”, ironizzava anzitutto contro le autorità di governo, «particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo».
In realtà, diceva Pertini, i “sobillatori” erano facilmente identificabili: «sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori». In nome delle tante vittime della violenza nazifascista, «nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa».
Pertini, con forte sdegno morale, respingeva l’obiezione secondo la quale, in nome della libertà d’espressione, il neofascismo avrebbe avuto diritto di svolgere a Genova il suo congresso: «infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologia di reato».
Del resto, perché il congresso era stato convocato proprio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza? Secondo Pertini quel congresso era stato convocato apposta «non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza».
Dinanzi a queste provocazioni, per l’oratore, «la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza. Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui».
Seguiva una nobile esaltazione della Resistenza contro il fascismo: «La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero Paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero».
Occorreva ricordare (e se occorreva farlo nel 1960, figuriamoci oggi nel lontano 2024…) chi erano stati «quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere, si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria, purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani».
Di fronte alla memoria di questi eroici concittadini, spesso misconosciuti, dimenticati o irrisi dalle nuove autorità politiche, l’invito di Pertini era perentorio: «Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune».
Dopo aver analizzato la situazione politica del momento e dopo aver fatto un bilancio degli errori commessi anche da parte delle forze antifasciste (che avevano spesso smarrito, nel dopoguerra, l’unità di intenti e la solidarietà reciproca che era risultata vincente nel 1945), Pertini lamentava il fatto che, in seguito al “baratto” di soli 24 voti (che avevano permesso al governo Tambroni di esistere), «i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni».
Il discorso di Pertini proponeva poi un forte appello ai giovani che partecipavano alle manifestazioni contro ogni camuffato revival del fascismo: «Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà, la fede di sempre».
Infine, il futuro Presidente sottolineava la presenza, a quella manifestazione antifascista, di «uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia»; e tuttavia «questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista».
Il discorso si chiudeva con uno sprezzante appello ai governanti: «A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza? Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi. Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio. Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi».
Dopo quel giorno, il governo Tambroni scelse la linea dura; ne derivarono violenti scontri a Genova fra manifestanti e forze dell’ordine il 30 giugno 1960; gli scontri si estesero rapidamente al resto del Paese.
Alla fine il MSI annullò definitivamente il congresso genovese e tolse l’appoggio al governo, cui non restò che dimettersi. Gli successe il 26 luglio un altro monocolore DC, guidato da Amintore Fanfani, con l’appoggio esterno (stavolta) di PSDI, PLI e PRI.
Oggi, 25 aprile 2024, nel bel mezzo delle polemiche che assurdamente nascono a proposito della festa della Liberazione, le nobili parole di Sandro Pertini dovrebbero essere rilette e meditate con attenzione, soprattutto da quei giovani che non sanno, non capiscono e non studiano che cosa fu la dittatura fascista e che cosa fu l’occupazione nazista in metà del nostro Paese, caratterizzata da una ferocia disumana che non può essere rimossa e dimenticata.