Nel capitolo 24 del I libro delle sue “Storie”, Erodoto narra la novella del poeta Arione salvato dal delfino; questa digressione si ricollega al filo centrale della narrazione in modo artificioso, ma risponde al desiderio dell’autore di narrare vicende “meravigliose” (θωυμαστά), dichiarata fin dal Proemio.
Ecco anzitutto il contenuto del capitolo.
Il poeta Arione, attivo alla corte del tiranno Periandro di Corinto, desidera recarsi per nave in Italia e in Sicilia. Riparte poi da Taranto, dopo aver guadagnato molto denaro, con una nave corinzia presa a noleggio; ma i marinai corinzi dell’equipaggio in alto mare aggrediscono il poeta e vogliono gettarlo in mare. Arione, dopo averli supplicati invano di risparmiarlo, chiede di poter eseguire un ultimo canto. Presa la cetra, intona il nomos òrthios e si getta poi in mare. Un delfino lo prende sul dorso e lo conduce al Tenaro; Arione, tornato a Corinto, narra l’accaduto. Periandro, diffidente, tiene il poeta sotto custodia, ma interroga al loro arrivo i marinai corinzi; questi, mentendo, affermano che Arione si trova ancora a Taranto. Ma quando il cantore appare, essi ammettono la verità. Secondo alcuni, a ricordo del prodigio, al Tenaro esiste una statua di bronzo che mostra un uomo sopra un delfino.
Arione di Metimna (nell’isola di Lesbo) era un celebre citaredo, cioè un cantore che eseguiva canti “a solo” accompagnandosi con la cetra; visse fra il VII e il VI secolo a.C.
Nel racconto di Erodoto risalta anzitutto il tema della potenza del canto, che riesce ad ammaliare anche i cuori più duri (si ricordi l’analogo mito del poeta tracio Orfeo, che col canto ammansiva le belve e trascinava alberi e pietre).
Emerge poi il motivo della sacralità inviolabile del cantore: Erodoto mostra una fede assoluta in una giustizia divina che ricompensa il poeta dell’ingiustizia subìta; la rettitudine e l’alto livello morale di Arione si contrappongono radicalmente all’atteggiamento subdolo e violento dei “cattivi”, i marinai corinzi.
Una più accurata analisi della novella offre però altri spunti interessanti di riflessione.
Anzitutto, il fatto che Arione, pur risiedendo alla corte di Periandro, desideri compiere un viaggio, dimostra che il poeta di corte non si sentiva necessariamente vincolato al contesto in cui operava. A tale riguardo Bruno Gentili rimarca che il racconto erodoteo offre “un’idea della possibilità offerta a un cantore di ottenere anche grandi guadagni” (Poesia e pubblico nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 19952, p. 216).
Tuttavia l’esperienza “esterna” resta limitata nel tempo, infatti Arione, pur avendo avuto grandissimo successo all’estero, intende tornare alla sua corte di appartenenza; sulla via del ritorno, subisce l’aggressione da parte dei marinai corinzi.
Simile, ma più cruento, era un altro aneddoto, che narrava l’uccisione del poeta Ibico di Reggio (VI sec. a.C.) da parte di briganti che volevano derubarlo (cfr. un epigramma di Antipatro di Sidone, II sec. a.C., A.P. VII 745). Sembra dunque evidente che una certa aneddotica collegava (almeno in quei tempi arcaici) la fama di ricchezza alla figura del poeta.
Nel momento di massimo pericolo, la performance canora di Arione assume solenni connotazioni rituali: il poeta indossa “tutto il suo abbigliamento” (πᾶσαν τὴν σκευήν) e prende la cetra, intonando il nomos òrthios. Si trattava di un inno legato al culto di Apollo, dal ritmo molto solenne, la cui introduzione era attribuita a Terpandro di Antissa (città dell’isola di Lesbo), vissuto nel VII sec. a.C. e considerato l’inventore della lira a sette corde; in base alle testimonianze antiche, si deduce che il nomos òrthios era cantato nel registro acuto ed era dunque di intonazione assai difficile.
Al termine del canto, Arione si getta in mare e viene salvato da un delfino.
Nella cultura greca il delfino era considerato sacro a Poseidone e ad Apollo, per le sue caratteristiche di animale acquatico sui generis: mammifero, amico dell’uomo, amante dei bambini, sensibile alla musica, compagno dei marinai e “complice” dei pescatori; la sua cattura era considerata una sorta di sacrilegio.
Anche Dioniso era collegato ai delfini: nell’Inno a Dioniso pseudo-omerico, quando il dio chiede ad alcuni pirati di traghettarlo da Argo a Nasso, scopre che essi intendono venderlo come schiavo. Allora trasforma i loro remi in serpenti, avvolge la nave in una cortina d’edera e la lega con tralci di vite, cosicché i pirati, impazziti, si gettano in mare e sono trasformati in delfini. Da allora questi esseri sono amici degli uomini e si adoperano per salvarli dai flutti, a ricordo del pentimento dei pirati da cui discendono.
I delfini sono spesso raffigurati nelle testimonianze iconografiche: già nell’antichissimo palazzo di Cnosso, a Creta, compaiono delfini in ampi affreschi parietali di ispirazione acquatica; è celebre pure la Casa dei Delfini a Delo, con una notevole decorazione musiva pavimentale.
Anche nel mondo romano non mancano attestazioni iconografiche dell’episodio di Arione e del delfino: la scena ritorna nella Villa Romana del Casale a Piazza Armerina nella cosiddetta “diaeta di Arione”, una stanza da pranzo e di soggiorno con abside, il cui pavimento musivo mostra un delfino che salva il poeta, il quale incanta con la lira vari abitanti del mare: tritoni, amorini, ippocampi e altri animali marini.
Due miti collegavano a un delfino il nome della città di Delfi: 1) il primo narrava l’unione di Poseidone con Melanto, figlia di Deucalione, cui il dio del mare si era presentato con le sembianze di un delfino; perciò il loro figlio fu chiamato Delfo e da lui prese nome la città di Delfi, dove si trovava l’oracolo di Apollo; 2) l’altra versione del mito narrava che Icadio, figlio di Apollo, fosse naufragato durante un viaggio per mare, ma fosse stato salvato da un delfino, che lo trasportò fino ai piedi del monte Parnaso; qui Icadio fondò Delfi, chiamandola così in onore del delfino che l’aveva salvato.
ll Delfino (in latino Delphinus) è anche una piccola costellazione settentrionale, molto vicina all’equatore celeste; la costellazione si chiama così per la particolare configurazione di alcune stelle, che ricordano la sagoma di un delfino in fase di salto.
La conclusiva menzione della statua di bronzo sul Tenaro ha valore eziologico; di questa statuetta (probabilmente un ex voto) parla il periegeta Pausania, che nel II sec. d.C. la vide ancora nel tempio di Poseidone sul Tenaro (III 25; cfr. pure Eliano De natura animalium XIII 45); anche in alcune monete di Metimna è raffigurato Arione a cavallo di un delfino. Evidentemente Erodoto intende collegare il suo racconto fantastico alla realtà documentata da altre fonti poetiche o figurative.
Non è improbabile, infine, che in questa novella Erodoto abbia riecheggiato racconti mitologici e popolari preesistenti: “leggende di persone salvate o guidate da delfini circolavano in città marinare, come Corinto (Melicerte), Metimna (Enalo e la vergine) e Taranto (Taras, Falanto). […] Un eventuale rapporto tematico molto generale con leggende orientali (storia di Giona) non può essere dimostrato” (D. Asheri, Erodoto – Le Storie – Libro I – La Lidia e la Persia, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori, Milano 20057, pp. 276-277).
La storia di Arione e del delfino ricompare in Plutarco (Moralia 160a-162b), nell’erudito Aulo Gellio (Notti Attiche XVI 19) e nel mitografo Igino (Fabulae CXCIV).
Ecco infine il passo erodoteo su Arione (I 24), nella traduzione di Augusta Izzo D’Accinni.
«Narrano che questo Arione, che viveva per lo più presso Periandro, venisse preso dal desiderio di recarsi in Italia e in Sicilia, e che, dopo aver guadagnato molte ricchezze, volesse ritornare a Corinto. Partì dunque da Taranto e, di nessuno fidandosi più che dei Corinzi, noleggiò una nave corinzia. Ma i marinai in alto mare pensarono di gettare in mare Arione e di prendersi le sue ricchezze. Egli, avendo compreso ciò, li supplicava, offrendo loro spontaneamente i danari, ma pregando di aver salva la vita. Ma non riuscì a persuaderli; anzi gli ingiunsero o di uccidersi da sé in modo da poter avere in terra una sepoltura, o di saltare in mare al più presto. Allora Arione, messo così alle strette, li pregò che, dal momento che così avevano deciso, gli concedessero di cantare, ritto fra i banchi della nave, con tutta la sua acconciatura, promettendo di uccidersi dopo aver cantato. E quelli, compiaciuti al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, si ritirarono da prua verso il centro della nave. Ed egli, indossato tutto il suo abbigliamento e presa la cetra, ritto fra i banchi eseguì il «nomos orthios» e, finito il canto, si gettò in mare così come stava, tutto vestito. Quelli continuarono la navigazione per Corinto; lui invece narrano che un delfino l’abbia preso in groppa e l’abbia portato a riva al Tenaro; sceso a terra andò a Corinto in quell’abbigliamento, e lì giunto narrò tutto l’accaduto. Ma Periandro incredulo tenne Arione sotto custodia, non lasciandolo andare in nessun luogo; teneva però d’occhio l’arrivo dei marinai. Appena essi giunsero, chiamatili, si informò se avessero da dargli qualche notizia intorno ad Arione. Ma mentre essi dicevano che era sano e salvo in Italia e che lo avevano lasciato a Taranto in ottime condizioni, apparve loro dinanzi Arione, così come quando era saltato in mare; e quelli, sbalorditi, vistisi scoperti, non poterono più negare. Questo dunque narrano sia i Corinzi che i Lesbi, e a Tenaro c’è una statua in bronzo di modeste proporzioni, dono votivo di Arione, rappresentante un uomo su un delfino».
Interessante il fatto che all’aedo sia subentrata la figura del poeta di corte che evidentemente godeva di uno status sociale più elevato e remunerato.
Complimenti per la ricchezza e puntualità delle informazioni.