Altri quattro vocaboli siculo-italiani

Continuiamo la rassegna di vocaboli ed espressioni del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.

Eccone altri quattro.

1) Aggrancato – Quando si sta molto tempo seduti, al momento di alzarsi ci si sente “aggrancati” (o “aggranchiati”), cioè rattrappiti, intorpiditi: “Mi sento tutto aggrancato!” dice chi si sente “bloccato” e quasi incapace di muovere un passo dopo una lunga inerzia.

Il Traina spiega così il verbo “aggrancari”: “ridursi le membra o per freddo o per malattia in modo da non potersi distendere; […] l’intormentire segnatamente di piedi o dita”.

In realtà il termine è presente anche nella lingua nazionale: Manzoni ne fa uso nei “Promessi Sposi” quando descrive don Abbondio che, dopo l’incontro con i minacciosi “bravi” di don Rodrigo, cammina “mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate”; qui appare evidente la derivazione da “granchio”, a indicare per l’appunto un modo di camminare difficoltoso e quasi incapace di procedere in avanti.

2) Assicchiato – Indica una persona emaciata, magra ed esangue, o per costituzione sua o in seguito a malattia debilitante; Mortillaro spiega il verbo “assicchiàrisi” in chiave psicologica oltre che fisica: “essere afflitto, pallido e smorto per dolore, o per lunga fatica, o inedia”.

Io ho sentito usare maggiormente questo vocabolo al femminile, con riferimento a una donna per l’appunto “assicchiata”, cioè scheletrica, quasi cadaverica, l’opposto insomma di una “sciacquatuna” (che è invece florida, in carne e colorita); in genere nella cultura locale la seconda tipologia in passato è stata preferita alla prima (la “sciacquatuna”, o – affettuosamente – “sciacquatunazza”, passava anche per gioviale e simpatica); oggi però, fra fitness, wellness e anoressie, le “assicchiate” si stanno prendendo una sostanziale rivincita sulle loro rivali più rubiconde e tondeggianti.

3) Mano manuzza – È il gesto con cui il genitore tiene per mano un bambino, senza mollarlo mai e proteggendolo dai rischi universalmente presenti nell’universo creato. Intere generazioni di “picciriddi” locali sono stati tenuti “mano manuzza”, senza essere lasciati liberi se non a età ormai quasi adolescenziale… Tuttavia “camminano mano manuzza” si può dire anche di due “ziti”, che si tengono romanticamente per mano, o di due anziani che si sostengono a vicenda per non “truppicare”… L’espressione si può usare anche metaforicamente: molti scrittori accompagnano i loro libri “mano manuzza” nelle presentazioni in libreria e molti insegnanti guidano gli alunni “mano manuzza” nei vari passi dell’apprendimento.

L’importante, in tutti i casi, reali o metaforici, sarebbe quello di mollare, a un certo punto, la mano che sorregge l’altra “manuzza”, lasciando finalmente libera quest’ultima e cancellando ogni forma di iperprotettivismo.

4) Negghia – “Sei una negghia!” grida spesso qualcuno, esasperato dall’ennesimo pasticcio compiuto da un’altra persona, recidiva per la sua capacità di “fare danno”.

Il vocabolo dialettale “negghia” è però complesso e ricco di significati: anzitutto corrisponde all’italiano “nebbia”: Traina lo spiega con “vapore che ingombra l’aria e si scioglie in pioggia” e  aggiunge il valore metaforico di “persona uggiosa, increscevole, e specialmente di ragazzo piagnucoloso” (definendolo poi, nel suo surreale italiano pseudofiorentino, “frignuccio” e “boccalone”). Il passaggio semantico si può spiegare così: siccome la nebbia (peraltro qui assai rara) serve solo a fare danno, ecco che una “negghia” è qualcosa che non serve assolutamente a niente e che anzi arreca danno e confusione.

In particolare con “negghia” si indicano anche le cianfrusaglie, gli oggetti inutili che ingombrano le stanze (quelli che a Genova si chiamano “ravatti”): “devi levare tutte ste negghie!” si dice spesso, invano, a chi tesaurizza ogni oggetto del passato fino a farne accumulare montagne, destinate ad essere spazzate via, prima o poi, dall’indifferenza delle generazioni future. Esiste anche il corrispondente aggettivo “annigghiato”, che indica un ambiente confusionario, una situazione contorta o, più in generale, qualcosa che non ha nessuna logica e ordine; si usa anche per indicare il cielo coperto, “annuvolato”, in una giornata priva di sole.

Esiste anche un verbo “annigghiari” che significa “attristare con narrazioni funeste, o con atti capaci di turbar la pace o l’allegria” (Mortillaro); la forma riflessiva “annigghiàrisi” indica invece il “caricarsi” di guai, di debiti, di problemi relativi alla famiglia, ecc.

Basta per oggi: meglio non aggiungere altre “negghie”.

Dopo avervi condotto “mano manuzza” attraverso queste espressioni del lessico siciliano, smetto perché “sto aggrancando” a forza di stare seduto (stamattina ho lavorato indefessamente al mio prossimo libro scolastico…); non c’è però il rischio che io diventi “assicchiatu” perché – almeno a tavola – finora non mi faccio mai pregare e (come diceva mia suocera Bice) “faccio venire il cuore” a chi mi invita a cena…

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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