Addio alle lettere e alle cartoline

Su “Repubblica” di oggi, 10 ottobre 2024, a pag. 23 si legge un interessante articolo di Michele Smargiassi, intitolato: “Caccia a francobolli e buche della posta. Che odissea spedire una cartolina”.

Il sottotitolo chiarisce subito il problema, che finisce per avere conseguenze “epocali”: “Nell’era delle mail e delle chat inviare una lettera è diventata un’impresa. Così cambia il panorama delle nostre strade. E tramonta un’idea del mondo”.

L’articolo inizia presentando la difficoltà con cui oggi si riescono a trovare i francobolli, necessari per affrancare lettere e cartoline: «La risposta diplomatica è: “Mi spiace, li abbiamo terminati”. La risposta sincera è: “Non li teniamo più, vada all’ufficio postale”. Al settimo o ottavo tabaccaio respingente ti rassegni e vai all’ufficio postale, stacchi il numerino e ti metti in coda per un francobollo da 1,25 euro, aspetti venti minuti, chiedi all’impiegata, che ti guarda con il compatimento dovuto a chi compra cose da vecchio, tipo un pannoIone, una panciera, poi si alza, va ad aprire una cassetta di sicurezza, estrae un faldone, stacca un rettangolino di carta, lo gira, ci annota a matita un numero, torna allo sportello, apre il computer, scrive e digita e scrive, stampa una ricevuta e ti consegna finalmente il francobollo. Da 1,25 euro. Per affrancare una lettera serve più tempo e burocrazia che per aprire un conto in banca».

Ma non è finita; dopo aver ottenuto, attraverso questa trafila, l’agognato francobollo e dopo averlo appiccicato sulla lettera o cartolina, resta il problema ancor più grave di trovare le cassette della posta, in cui si “imbucava” la corrispondenza. Infatti, come prosegue l’articolo, «Le buchette delle lettere, quelle che stavano di fianco alla porta del tabaccaio, sono state eradicate. Entro la fine di questo 2024, come da programma Agcom deliberato due anni fa, il loro numero totale sarà passato da 46.500 a 29 mila. Ma l’obiettivo finale è ridurle a una ogni cinquemila abitanti. Una strage. Questo paese è efficientissimo quando deve smantellare un servizio. Dicono: sveglia, ci sono email e messaggini, ormai le buche per lettere le usa solo il tre per cento degli italiani. Ma quei poveri tre? Le smart-box promesse, le buchette postali intelligenti (tutto ormai è intelligente, tranne chi dovrebbe esserlo) che “sanno” di avere corrispondenza nella pancia e chiamano il postino con un whatsapp, chi le ha viste. A Venezia, turisti analogici spaesati tentano pervicacemente di infilare cartoline demodé nelle fessure sul fianco del Fondaco dei Tedeschi, che fu ufficio postale ma ora è un mercatone del lusso, però le vecchie buche per lettere le hanno lasciate, con la loro scritta a caratteri di regime bronzei sul marmo, come un monumento ai caduti: “Impostazione corrispondenze”».

Dunque, l’epoca dei francobolli è finita, dopo 187 anni: infatti «sir Rowland Hill nel 1837 ebbe il colpo di genio di materializzare una tariffa di trasporto in un rettangolino di carta. Era un token, dicevano, una ricevuta, ma erano anche tre centimetri quadri di immaginario che aggiungevano a una corrispondenza privata un richiamo a cose più grandi, dal volto dei sovrani alle commemorazioni di eventi. Così potenti, nella loro suggestione, quei microbi dell’arte tipografica, che divennero l’oggetto della più potente mania collezionistica mai vista sulla terra. Giocattolo “istruttivo”, piaceva ai genitori. Pensavano, gli ingenui, che quelle figurine ci insegnassero qualcosa di giusto e opportuno: la storia, l’arte che raffiguravano, il valore del denaro che rappresentavano, ben stampato in cifre, ma anche la sua vanitas, il timbro che ne annullava il valore dopo l’uso, come una sentenza di morte; e poi il metodo, la pazienza, l’ordine mentale necessari per riporli in ordine negli album a taschini. Adesso cosa vuoi riporre mai, i francobolli superstiti sono autoadesivi, non li stacchi più dalle buste neppure con l’acido muriatico».

Insomma, addio buche per le lettere, addio francobolli, addio lettere cartacee, addio cartoline.

È veramente la fine di un’epoca; ma ad accorgersene sono solo gli anziani, sempre più a disagio in un mondo che si trasforma (spesso in peggio) a un ritmo ormai vorticoso e insostenibile. A noi dinosauri, dunque, può solo restare il ricordo delle lettere e delle cartoline di un tempo.

Quando vivevo a Genova con i miei genitori, nei miei primi 22 anni di vita, era nostra consuetudine almeno bisettimanale quella di scrivere una lettera ai parenti di Bagheria. Le lettere erano anzi due ogni volta: una per via Leonforte (abitazione della nonna paterna e dei miei zii Pintacuda), l’altra per via Ciro Scianna (dove abitavano i nonni materni con zii e zie).

Le lettere, in genere di quattro pagine, erano monopolizzate nelle prime due pagine da mio padre, scrittore più prolifico e ricco di notizie; poi c’era una pagina o poco più di mia madre, più laconica ed essenziale; infine io nello spazio restante mettevo i miei saluti e qualche notizia settimanale (ad es. un bel voto a scuola, o una giornata particolarmente bella, o qualche mio nuovo acquisto). Le lettere venivano poi imbucate preferibilmente alla vicina Stazione Brignole (si guadagnava così un po’ di tempo nella spedizione).

3 marzo 1954: prima pagina della lettera con cui mio padre comunicava ai parenti lontani la mia nascita, avvenuta a Genova il giorno prima

La posta, stranamente, funzionava abbastanza bene: in un paio di giorni le missive arrivavano a destinazione e, parallelamente, incrociavano per strada le loro sorelle provenienti dalla Sicilia e in viaggio per Genova.

Quanto alle cartoline, si mandavano dai luoghi di vacanza, ma non solo e non sempre.

Nell’assoluta impossibilità di condividere in tempo reale, come ora, le proprie sensazioni di viaggio (con l’invio sovrabbondante di selfie e orribili video “verticali” con le sbarre nere ai lati), quando si arrivava nell’agognata meta di una gita, di un viaggio o di un soggiorno estivo, subito si andava in una cartoleria e si compravano le cartoline e i relativi francobolli; poi, nelle pause in albergo o nella casa di villeggiatura, si scrivevano le poche righe consentite dallo spazio a disposizione, corredate da sintetiche note di viaggio e da più o meno burocratici “saluti e baci affettuosi”.

Una cartolina del 1986

Quando qualcuno partiva, gli si chiedeva espressamente: “Mandami una cartolina!”. Non a caso la “cantantessa” catanese Carmen Consoli, quando nel 2009 perse suo padre Giuseppe, gli dedicò una bella canzone intitolata “Mandaci una cartolina”: “Mandaci una cartolina e una ridente foto di te / che prendi il sole sulla spiaggia / con la solita camicia bianca / ed il giornale aperto sulla pagina sportiva / mentre stai sul bagnasciuga / beato tra le braccia di un tramonto”.

Esistevano anche le “cartoline postali” (cartoncini leggeri di forma rettangolare senza illustrazioni e fotografie) che consentivano di scrivere di più (ovviamente senza alcuna garanzia di privacy perché non erano racchiuse in una busta).

Una cartolina postale inviata da mio padre al suo fraterno amico e collega Antonio Trombone (da Milano, 1940)

Sicuramente, a differenza dei messaggini che sforniamo oggi in quantità esponenziale, la cartolina testimoniava un’attenzione maggiore nei confronti del destinatario: veniva comprata apposta (francobolli compresi), veniva scelta fra tante altre, spesso in funzione dei gusti e delle passioni della persona cui era inviata, richiedeva la conoscenza del suo indirizzo (che a volte era diligentemente annotato in un’agendina portata al seguito), presupponeva un certo tempo per “pensarla” e scriverla, imponeva infine una ricerca più o meno fortunata di una cassetta per le lettere. Chi riuscirebbe, oggi, a percorrere tutte queste faticose tappe pur di inviare un pensiero a una persona cara?

La cartolina postale, con la mia foto, con cui inviavo da Genova gli auguri di buon Natale ai miei parenti lontani (dicembre 1954)

Quante cartoline (illustrate e postali) conservo nel mio immenso archivio! Ne ho qui davanti tantissime, che coprono quasi un secolo di storia familiare e provengono dalle più disparate zone d’Italia o estere.

Certo, c’erano anche le cartoline poco piacevoli, come quella che ti notificava la partenza per il servizio militare (a me arrivò nell’estate del 1978, ingiungendomi di presentarmi il 13 settembre ad Orvieto, al III Battaglione Granatieri “Guardie”). Ma la maggior parte rappresentano ricordi importanti, antiche testimonianze di affetti, documenti di epoche ormai lontane.

Ci sono cartoline inviate dai miei genitori, ingiallite dal tempo e con affrancature a prezzi d’altri tempi (nel 1951 si pagavano 8 lire) e con francobolli che farebbero la gioia dei collezionisti.

Una cartolina inviata da Pompei (17 giugno 1951); la mandava mia madre al suo fidanzato lontano, mio padre, che già viveva a Genova e insegnava al Liceo Musicale “Paganini”. Mia madre quell’anno aveva insegnato Matematica in provincia di Benevento.

C’è una mia cartolina scritta il 13 settembre 1978 da Orvieto e mandata ai miei zii con tanti “saluti e baci… annajati” (stavo infatti iniziando la “naja”, il servizio militare, in qualità di bersagliere).

Cartolina da Orvieto – 13.09.1978

C’è una mia cartolina a mia moglie Silvana inviata il 4 ottobre 1985 da Lercara (dove insegnavo), con la facile battuta dialettale “Saluti càvuri da Lercara Friddi”.

Ci sono cartoline mandate da alunne ed alunni.

Non mancano cartoline variamente commemorative: l’Euroflora di Genova del 1971, papa Giovanni Paolo I, la prima cartolina mandata da mio figlio Andrea alla nonna, scritta con un’incerta e grossa grafia sperimentale.

Cartolina dell’Euroflora di Genova – 1971

Insomma, è vero che anche io ormai scrivo e ricevo mail, è vero che se devo mandare un saluto da un luogo invio una foto su Whatsapp, è verissimo che neanche io scrivo più lettere cartacee (con qualche eccezione dovuta al fatto che la burocrazia a volte è più paleolitica del Paese che la produce).

Però rimpiango quel mondo di carta che non era cartapesta, rimpiango quel rituale che c’era intorno alla corrispondenza: l’acquisto delle buste, della carta da lettere, dei francobolli; la discesa di casa per “imbucare le lettere”; l’attesa del postino che portasse la risposta delle persone contattate; la rabbia quando si smarriva qualche messaggio importante o quando veniva consegnato in tempi biblici. Ci poteva stare anche qualche disguido, ma era bello leggere e rileggere le lettere scritte a mano (ora quanto impieghiamo a “consumare” un messaggino?), indovinare in una grafia i sentimenti che l’avevano ispirata, decifrare uno sgorbio illeggibile, pensare alla risposta adeguata.

E quando ho fra le mani una di quelle vecchie e ingiallite lettere e cartoline di un tempo, mi sfugge sempre un sorriso, accompagnato dall’inevitabile nostalgia destata dai ricordi.

C’è stato un periodo in cui tutto pareva immobile nella sua perfezione, come se il tempo non fosse in movimento ma fissato sulla cartolina di un’estate felice” (Giorgio Faletti).

P.S.: Per altre testimonianze (con molti documenti e immagini) sulla corrispondenza epistolare di un tempo, rinvio ad altri due articoli di questo blog: (https://pintacuda.it/2022/12/16/quando-scrivevamo-le-lettere/ e https://pintacuda.it/2022/07/31/ricordo-delle-cartoline-illustrate/.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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