Ad Antonio Diogene (Ἀντώνιος Διογένης) è attribuito il romanzo Le meraviglie al di là di Thule (Τὰ ὑπὲρ Θούλην ἄπιστα), noto purtroppo solo attraverso un riassunto, qualche estratto e scarsi frammenti papiracei. L’autore viene collocato tra I e II secolo d.C. e sembra legato all’ambito romano, come dimostrerebbero il prenome Antonio e il nome del dedicatario della lettera prefatoria, un tale Faustino.
Il suo romanzo, in cui l’elemento fantastico era prioritario, constava di ben ventiquattro libri; oltre ad alcuni frammenti, ne rimane l’epitome che ne ha fatto il patriarca bizantino Fozio nella sua Biblioteca.
La storia è narrata in prima persona a un certo Cimba, di stirpe arcade, dal suo connazionale Dinia, che si è recato nell’estrema Thule con il figlio Democare, in cerca di avventure. Giunto a Tiro ormai vecchio, Dinia narra al suo conterraneo le vicende di Mantinia e di sua sorella Dercillide, donna di razza tiria e d’illustre famiglia, da lui conosciuti nella lontana isola. Essi, fuggiti da Tiro, erano stati insidiati da un sacerdote egizio, Paapis, ed avevano viaggiato in luoghi reali (Tiro, Rodi, la Magna Grecia, Creta, l’Italia, la Sicilia) ed immaginari (il paese dei Cimmeri, l’oltretomba, l’isola di Thule).
Nella vicenda al filone fantastico si intreccia la tematica erotica (la storia d’amore tra Dinia e Dercillide); quanto a Thule, come annota Fozio, di essa “si parla quasi niente, o poco”, ma Dinia – continua l’erudito – “si mette a raccontare a Cimba le incredibili cose che in questi suoi nuovi viaggi egli vide, dicendo di avere osservate quelle cose che gli studiosi degli astri sono soliti insegnare. Cioè che alcuni abitano sotto il polo artico, e che lì la notte è di un mese, ed a volte più breve, a volte più lunga, fino a comprenderne sei e durare anche un anno. […] Queste ed altre simili cose annuncia e che vi ha trovato uomini e cose che nessun mortale né vide mai, né udì, né mai immaginò nella sua mente” (trad. D’Andria).
Sempre a detta di Fozio, “questo Antonio Diogene, che rappresenta Dinia che racconta a Cimba tante favole prodigiose, dice di scrivere le Cose incredibili che erano oltre Thule a Faustino, e le dedica a sua sorella Isidora, donna che si dilettava di lettere. Si professa egli poi poeta della commedia antica; ed aggiunge che, quantunque abbia finto tutte queste cose false ed incredibili, di esse però tiene un elenco degli scritti dai quali egli le ha con gran fatica raccolte e compilate. Perciò in ciascuno di questi suoi libri nomina gli autori che prima le avevano scritto; per cui si vede che anche le cose incredibili hanno il loro autorevole appoggio”.
Antonio Diogene è uno dei primi scrittori ad utilizzare la strategia letteraria della cosiddetta “prefazione denegativa”: afferma infatti di riportare il contenuto di un testo da lui rinvenuto, risalente all’età di Alessandro Magno (un po’ come farà Manzoni riferendosi nei “Promessi Sposi” al manoscritto dell’Anonimo, o come farà Umberto Eco simulando, ne “Il nome della rosa”, di aver ritrovato il manoscritto del monaco Adso da Melk).
Da quanto si riesce a dedurre, la narrazione, che presentava una doppia cornice, era estremamente scaltrita sul piano narratologico; notevoli erano la complessità dell’intreccio, l’insolita prevalenza della tematica fantastica-paradossografica sulla tematica erotica, la presenza dell’elemento magico e pitagorico; a proposito di quest’ultimo, attestato esplicitamente da Porfirio (Vita di Pitagora, 10-13) non è escluso che il romanzo fosse di tipo religioso-sacrale (così ipotizzava il Rhode), costituendo un testo di formazione pitagorica.
Secondo Fozio, l’opera di Antonio Diogene costituì una delle fonti di ispirazione per La storia vera di Luciano; ma non è facile chiarire bene il legame fra i due autori.
Thule era un’isola immaginata all’estremo Nord dell’ecumene: il primo a parlarne fu il navigatore e geografo greco Pitea, nato nella colonia di Massalia (odierna Marsiglia) e vissuto nel IV sec. a.C. Costui, salpato dalla sua città intorno al 330 a.C. per un’esplorazione dell’Atlantico del Nord, si spinse sino a un’isola che distava sei giorni di navigazione dal nord della Gran Bretagna, chiamata per l’appunto Thule.
Del resoconto di questo viaggio, intitolato Sull’Oceano, rimasero solo pochi frammenti e notizie sparse in testi diversi (ad es. in Strabone e Isidoro di Siviglia). Una trentina di anni fa Giovanni Maria Rossi li ha riuniti in un volume pubblicato da Sellerio e intitolato “Finis terrae. Viaggio all’ultima Thule con Pitea di Marsiglia” (1995).
Secondo la testimonianza di Pitea, Thule era un paese agricolo in cui si produceva miele; gli abitanti mangiavano frutti e bevevano latte e una bevanda fatta di grano e miele; la notte lassù durava solo tre ore (evidentemente il visitatore vi era giunto in estate). Con un’ulteriore navigazione verso nord, Pitea raggiunse un luogo (la Groenlandia?) in cui il mare era “di gelatina”, cioè congelato.
A creare il mito dell’“ultima Thule” fu però Virgilio: “Tibi serviat ultima Thyle”, aveva scritto infatti il poeta mantovano (Georgiche I 30), augurando a Ottaviano di espandere il suo impero sino al lontanissimo settentrione.
Thule fu citata anche da Plinio il Vecchio, da Tacito nell’Agricola e dal greco Plutarco; il filosofo Seneca (l’unico autore latino che ebbe, fortissimo, il senso concreto del progresso umano) se ne ricordò nel secondo coro della Medea, allorché si prospetta il dominio dell’uomo su tutto il pianeta, per mare e per terra: “Giorno verrà, alla fine dei tempi, che l’Oceano scioglierà le catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e non ci sarà più un’ultima Thule (nec sit terris ultima Thule)” (vv. 375-379, trad. Traina).
Nella tarda antichità e durante il Medioevo il mito dell’Ultima Thule sopravvisse tenacemente; se ne è voluto trovare un’eco in alcuni sibillini versi del Purgatorio dantesco (XXXIII, 55-57) che costituirebbero un’allusione alla misteriosa isola: “E aggi a mente, quando tu le [=Thule??] scrivi, / di non celar qual hai vista la pianta / ch’è or due volte dirubata quivi”.
L’isola di Thule fu poi raffigurata nella Carta marina dell’ecclesiastico svedese Olao Magno del 1539; nella carta viene chiamata “Tile” e accanto ad essa sono raffigurati un “mostro visto nel 1537”, una balena (non troppo somigliante) e un’orca; è questa la prima mappa geografica a noi nota che descrive i Paesi nordici, indicandone dettagli e nomi dei luoghi.
Il mito di Thule, analogo ad altri altrettanto famosi (come quello dello Shangri-La himalaiano), ha affascinato moltissime persone anche in epoca moderna: nel Faust di Goethe è presente un esplicito riferimento ad esso allorché Margherita canta i versi della ballata del Re di Thule, storia di un amore infelice che corrisponde in certo modo alla vicenda d’amore tra lei e Faust; eccone i primi versi: “C’era un re a Thule / fedele fino alla tomba, / a cui la bella morente / diede una coppa d’oro” (“Es war ein König in Thule, / gar treu bis an das Grab, / dem sterbend seine Buhle / einen goldnen Becher gab”).
Il mito di Thule fu alla base della società tedesca esoterico-razzista chiamata Thule Gesellschaft, fondata nel 1918, che identificava in Thule l’origine della razza ariana, popolata dagli Iperborei, uomini giganteschi con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, che un tempo avrebbero dominato il mondo, per poi perderlo a causa delle relazioni con membri di altre razze “inferiori”.
Non si contano le riprese del mito in ambito musicale: Franz Schubert intitolò Der König in Thule un suo lied sui versi di Goethe; la stessa ballata è cantata in francese nel Faust di Gounod. In Italia se ne ricordarono, fra gli altri, cantautori come Fabrizio De André (nel 1974 ne “La via della Povertà”: “Einstein travestito da ubriacone / ha nascosto i suoi appunti in un baule / è passato di qui un’ora fa / diretto verso l’ultima Thule”) e Francesco Guccini nell’album “L’ultima Thule” del 2012.
Non mancano riprese nella narrativa, fra cui un racconto di Vladimir Nabokov (il celebre autore di Lolita) o il romanzo Signore delle Ombre (Lord of Shadows, 2017) della statunitense Cassandra Clare.
Anche in una celebre serie fantascientifica televisiva degli anni ’70, “Spazio 1999”, in un episodio della I serie un pianeta di ghiaccio viene chiamato “Ultima Thule”.
P.S.: Fino al 2009 una Thule esisteva veramente: era un piccolo villaggio nel Nord della Groenlandia, chiamato dai locali Qaanaaq, a nord del Circolo Polare Artico, nel fiordo di Inglefield, ad appena 1300 km dal Polo Nord, abitato da 656 esquimesi. Era sede di una base militare americana, contigua a un enorme parco; da lì partirono molte spedizioni per il Polo Nord e le regioni circostanti. Il comune, istituito nel 1963, cessò di esistere dopo la riforma della suddivisione amministrativa della Groenlandia; Qaanaaq si fuse quindi con altri 7 comuni, formando il comune di Qaasuitsup, ora soppresso.