In Grecia molti uomini, più o meno anziani, hanno l’abitudine di tenere in mano un tipico rosario che ha la forma di una collana, formata da una fila di perle passate su una sottile corda, le cui estremità vengono legate tra di loro e ornate con una finitura; le piccole pietre vengono fatte scorrere continuamente fra le dita.
Questo oggetto in greco si chiama “kombolòi” (κομπολόι), con derivazione probabile da “kòmbos” (κόμπος, cioè “nodo”) e dal verbo “léo” (λέω, l’antico λέγω “dire”), forse con il significato di «a ogni nodo dico (una preghiera)» (σε κάθε κόμπο προσευχή λέω); i primi “kombolòi” erano infatti semplici cordicelle annodate.
In genere i “kombolòi” si vedono tra le mani degli uomini seduti nei caffè: «… o magari gli onnipresenti “kombolòi”, i rosari laici che ogni greco tormenta facendoli roteare con la mano o contando le palline, ufficialmente per allontanare le preoccupazioni, icone – accanto al pacchetto di sigarette, ma oggi anche quelle elettroniche, e al cellulare – di ogni tavolino dei bar» (P. Nissirio, “Ad Atene con Màrkaris”, G. Perrone editore, Roma 2023, p. 14); inoltre abbondano nei negozi di artigianato e di souvenir per i turisti.
Esiste anche un Museo del Kombolòi, fondato nel 1998, che si trova a Nauplia e ospita, oltre a una collezione di rosari di varie religioni, centinaia di “kombolòi” di ogni tipo.
Il “kombolòi” è un accessorio prettamente maschile: fra i più famosi proprietari di questi rosari si ricordano Aristotele Onassis e Andreas Papandreou; l’attrice Mary Chronopoulou fu una delle prime a rivendicarlo (finora con poco successo) per le donne.
Le origini di questo oggetto sono antiche e sicuramente religiose; secondo alcune fonti, essi sarebbero stati già usati intorno all’anno Mille nella Grecia del Nord, sul monte Athos (tuttora sede di una piccola repubblica monastica); qui fili di granelli fatti di nodi di lana furono legati dai monaci su una stringa: queste “corde di preghiera” furono chiamate “komboskìni” (κομποσκοίνι). La preghiera recitata era la seguente: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà del peccatore, santissima Theotokos (Madre di Dio) salvaci, Santi di Dio intercedete per noi” (Κύριε Ιησού Χριστέ ελέησόν με τον αμαρτωλόν, Υπεραγία Θεοτόκε Σώσον ημάς, Άγιοι του Θεού πρεσβεύσατε υπέρ ημών).
Ma da dove proveniva il rosario greco? Secondo alcuni (meno probabilmente) esso derivò dal rosario cattolico, il cui nome viene a sua volta dal latino “rosarium”, cioè “rosaio”, dato che (dal ‘200 in poi) si riteneva che le preghiere formassero una corona di rose per la Madonna; altri invece, più verosimilmente, pensano a una derivazione dal rosario musulmano (“misbaḥah”, noto anche con altri nomi, fra cui “tespih” e “tasbīḥ”).
Il rosario musulmano (a sua volta derivato forse dalla Cina o dall’India) di solito è costituito da 99 grani divisi in tre sezioni (alla fine di ognuna si trova un grano più grande); ogni grano rappresenta uno dei 99 “bei nomi di Allah”. Nel “kombolòi” greco, il numero delle perle scese da 99 a 33 (come gli anni di Cristo) e poi a 23, per contrapporsi al mondo islamico; oggi non ha un numero fisso di grani; inoltre, se nel rosario turco le perle erano infilate una accanto all’altra ed erano fisse, nel “kombolòi” le perle sono libere di scorrere lungo il filo.
Nella Grecia moderna, come si è detto, l’originaria destinazione religiosa del “kombolòi” è svanita: oggi serve solo a tenere occupate le mani, come passatempo e “scacciapensieri”. Si dice, addirittura, che maneggiare questo oggetto costituisca una scelta filosofica, un modo per rilassarsi ed evitare lo stress; sarebbe insomma un efficace ansiolitico e un mezzo per tener lontana la jella; per di più costituirebbe un’evidente inibizione al fumo, a differenza del quale non nuoce alla salute.
Un tempo il rosario greco era un oggetto di lusso, un simbolo di prestigio e di potere, appannaggio delle classi sociali più alte, che lo sfoggiavano con perle preziose e con le estremità in seta; col tempo, però, si è diffuso in tutte le classi sociali e persino nei bassifondi.
Oggi si trovano “kombolòi” di vari colori; i più preziosi sono in ambra, ma ce ne sono anche in altri materiali (legno, vetro, ceramica, osso, addirittura in prosaica plastica).
Nella sua forma tipica il “kombolòi” è formato da una corda, in genere di seta, con un numero dispari di perline o “chàndres” (χάντρες). Ci sono poi: una “testa” composta da un grano fisso più grande degli altri detto “papàs” (παπάς, come il sacerdote greco); uno “scudo” (“thyreòs”, θυρεός) per separare i due fili e far scorrere bene i grani; infine una nappa (“funda”, φούντα), legata all’estremità della corda dietro il “papàs”, che aveva la funzione simbolica di asciugare le lacrime del peccatore.
Le perline oggi vengono chiamate scherzosamente “perle di preoccupazione”; esistono due modi di maneggiarle, uno più silenzioso e uno più rumoroso.
Il primo metodo consiste nell’iniziare da un’estremità del filo o della catena, tirando il filo in avanti usando il pollice e il lato dell’indice fino a raggiungere uno dei grani; quindi il cordino viene inclinato in modo che il granello cada e urti lo scudo; il gesto viene ripetuto fino a quando tutti i grani non sono stati inclinati; infine si ricomincia. Il metodo più rumoroso consiste invece nel dividere i grani in due gruppi: l’estremità dietro la mano viene fatta oscillare verso l’alto e in avanti così da colpire le altre perline, producendo un rumore; i fili sono poi riportati tra l’indice e il medio, tenendo i fili tra il pollice e il lato dell’indice.
Una variante minore del “kombolòi” viene chiamata “beglèri” (μπεγλέρι): è formato da una o più perline poste all’estremità di un cordino o una catenella; mentre le perline del “kombolòi” sono disposte in un cerchio chiuso, quelle del “beglèri” sono infilate in un singolo filo aperto e sono poste in modo simmetrico con due chiusure pesanti alle estremità.
L’originaria destinazione religiosa del rosario greco si mantiene nella cosiddetta “corda di preghiera” (“komboskìni”) usata nella liturgia ortodossa.
Per saperne di più, mi sono rivolto al dott. Gaetano Festa, ex DSGA del Liceo “Umberto I” di Palermo, presbitero cristiano (con il nome di Padre Giovanni) nella tradizione ortodossa e secondo prete a supporto della Parrocchia San Caralampo martire a Palermo (Eparchia Ortodossa Romena in Italia). Riferisco qui alcune delle notizie che egli gentilmente mi ha fornito e di cui lo ringrazio molto.
Anzitutto, «è importante evidenziare che il “komboskìni” non viene utilizzato di per sé per contare le preghiere, ma come aiuto per la concentrazione durante la preghiera e per un ritmo costante. Viene utilizzato solo come modalità di conteggio quando i monaci ortodossi recitano un certo numero di preghiere di Gesù invece della Liturgia delle Ore, se non sono in grado di prendervi parte. In questa prospettiva la “corda di nodi” è fatta di lana di colore scuro non tanto per far metafora della “metànoia” (il pentimento) quanto per ricordare ai cristiani che ciascuno di loro è, nel proprio stato, monaco».
Esistono poi due ipotesi sull’invenzione della “corda di preghiera” o “komboskìni”.
1) La prima la fa risalire a San Pacomio, vissuto nel IV secolo e ideatore del “cenobitismo”, una forma di monachesimo basata su un’organizzazione “comunitaria” (il termine “cenobio”, dal greco “koinòbion”, κοινόβιον, indica per l’appunto una “vita comune”, κοινός βίος), in opposizione alla dottrina ascetica degli anacoreti; Pacomio raccolse a Tabennesi, sulla riva del Nilo, un centinaio di discepoli, per i quali organizzò la vita in comune e prescrisse una regola. L’ultimo dei suoi “ammonimenti”, riprendendo un passo della I lettera ai Tessalonicesi di Paolo (5, 12- 22), invita alla preghiera incessante; secondo la tradizione, l’Arcangelo Gabriele apparve in sogno a Pacomio nel sonno e gli mostrò come realizzare il “komboskìni”, ritenuto utile per contare le brevi orazioni alternative alla memorizzazione dei 150 Salmi.
2) Una diversa ipotesi assegna invece l’invenzione della corda di preghiera a Sant’Antonio “il Grande”, vissuto in Egitto per ben 105 anni (fra il 251 e il 356 d.C.). Secondo una leggenda Antonio usava, nella preghiera del “Kyrie eléison”, una corda di cuoio con un semplice nodo; il diavolo però avrebbe slegato i nodi per confondere il suo conto. Il religioso allora, ispirato dalla Madonna, avrebbe inventato un diverso tipo di nodi, costituiti con il segno della croce, impedendo così al demonio di scioglierli.
Il dott. Festa aggiunge infine: «La corda di preghiera resta, nella cristianità orientale, elemento strutturale della vocazione monastica e della stessa liturgia di professione monastica. Durante la loro tonsura (professione religiosa), i monaci e le monache ortodosse orientali ricevono una corda da preghiera, con le parole: “Accetta, o fratello/sorella, la spada dello Spirito che è la parola di Dio (Efesini 6:17) nella preghiera eterna di Gesù, con la quale dovresti avere il nome del Signore nella tua anima, i tuoi pensieri, e il tuo cuore, dicendo sempre: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà del peccatore”… [..] L’ortodossia considera la corda da preghiera come la spada dello Spirito, perché la preghiera che è sincera e ispirata dalla grazia dello Spirito Santo è un’arma che sconfigge il diavolo».
P.S.: Ringrazio anche Emmanouil Genarakis per le utili indicazioni che mi ha fatto avere sull’argomento.