“Il conte di Montecristo” di Bille August: da un’idea di Alexandre Dumas…

Per capire meglio quanto diremo, occorre una paradossale premessa.

Immaginiamo di voler realizzare una nuova “fiction” televisiva sui “Promessi Sposi”, che cancelli il ricordo sia dell’antica e fedelissima versione di Sandro Bolchi (1967) sia della più recente miniserie di Salvatore Nocita (1989), trasgressiva in molti dettagli ma impeccabile nella fotografia e nella ricostruzione di ambienti e costumi.

Mettiamoci al lavoro e iniziamo a costruire i nostri “Promessi Sposi” del XXI secolo, con l’intento di fare qualcosa di diverso, di “moderno”, di originale; dunque, lavoriamo di fantasia.

Anzitutto Lucia la rendiamo meno “madonnina infilzata”, perché nel nostro tempo sarebbe una figura intollerabilmente fastidiosa; quindi la rendiamo meno ostile a don Rodrigo, che in fondo era bello, giovane, ricco e nobile; magari, nel bel mezzo dell’“Addio monti” inseriamo un’interpolazione: “Addio, palazzo nobiliare guardato tante volte di sfuggita, passando, e con ben poco rossore, nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di amante”.

Poi inseriamo qualche personaggio in più: che ne so, il padre di Lucia ancora vivo (che tenta di tenerla a bada indirizzandola verso l’affidabile Renzo), oppure un fratello di Renzo (che gli faccia da confidente nei momenti difficili). Poi rendiamo don Abbondio meno vigliacco e magari facciamolo incontrare con Padre Cristoforo per concordare qualche possibile soluzione; mettiamo poi un Innominato nominatissimo che non si converte, ma cade in una crisi depressiva isterica; non faremo mancare neanche una monaca, magari dirottandola da Monza a Lecco e facendola scappare via dal convento con il suo Egidio e magari con un figlio del peccato. Alla fine, poi, facciamo sopravvivere don Rodrigo alla peste, così ci prepariamo la strada per un “Promessi Sposi 2” (sempre che l’audience ci dia ragione).

Ne avete abbastanza? Siete scandalizzati? Vi posso capire, ma riflettiamo.

Quello che abbiamo prospettato appare “sconvolgente” perché tutti, volenti o nolenti, abbiamo studiato a scuola il romanzo di Manzoni (e purtroppo ci sono stati e ci sono tuttora innumerevoli insegnanti che riescono a farlo detestare), per cui avvertiamo subito le sfasature intollerabili rispetto al testo originale.

Ma quante persone al di sotto dei 40-50 anni possono oggi dire di aver letto per intero le oltre novecento pagine del “Conte di Montecristo” di Alexandre Dumas padre? Sempre meno.

Così come sempre meno sono, invece, i dinosauri della mia generazione che (anche per influsso dello sceneggiato televisivo di Edmo Fenoglio nel 1966, con protagonista Andrea Giordana) quel libro se lo sono letto per intero già all’età di dodici anni, all’epoca in cui i ragazzini, non avendo altro che due canali televisivi, nessun “social”, nessuna divagazione multimediale e nessuna delle mille frenetiche attività extrascolastiche, leggevano. E leggevano tanto, leggevano di tutto, immedesimandosi in storie e personaggi di ogni epoca, imparando vocaboli e fatti storici, soprattutto acquisendo il desiderio di cominciare a leggere un nuovo libro dopo avere finito il precedente.

Ne consegue che, vedendo la fiction televisiva che si è conclusa ieri sera su Rai Uno, con la regia del danese Bille August e con l’attore britannico Sam Claflin come protagonista, ben pochi sono coloro che sono rimasti allibiti e sconcertati di fronte ai radicali mutamenti introdotti dal regista rispetto al romanzo di Dumas.

Ecco quindi, nel film di August, un Edmond Dantés che, trovato il suo tesoro, inizia a spiattellare a destra e a manca la sua vera identità, assumendo come servitori Jacopo (che nel testo originale ha un ruolo molto più limitato) e – addirittura – quel Caderousse che era stato complice della trama ordita contro di lui; un Caderousse, aggiungiamo, che da sarto è diventato oste ed è pure di colore; un Caderousse che, anziché finire assassinato, se ne va ad aprire un’osteria in America (anzi, un “pub”, come gli dice il conte…).

Michele Riondino e Sam Claflin, rispettivamente nei ruoli di Jacopo e del conte di Montecristo

Parallelamente, nella miniserie è stato cancellato il personaggio di Giovanni Bertuccio, braccio destro del conte nel romanzo, che cova un grave rancore nei confronti di Villefort ma ne salva il figlio illegittimo, allevandolo con il nome di Benedetto. Radicalmente mutata è anche la vicenda di questo Benedetto, che nel romanzo si rivela un emerito mascalzone, finisce in prigione con Caderousse, ne esce grazie all’intervento di Dantés e assume per volontà di questi la falsa identità di Andrea Cavalcanti, per mirare alle nozze con Eugénie Danglars.

Nulla di ciò nella fiction televisiva, dove il personaggio di Andrea Cavalcanti non c’è e, al suo posto, ad aspirare al matrimonio con la figlia del banchiere è il bandito Luigi Vampa, fatto venire da Roma (!) sotto la falsa identità di conte Spada e trasformato in un dandy ante litteram (il povero Lino Guanciale, abituato a ruoli drammatici come quello del commissario Ricciardi, appare qui particolarmente spaesato).

Al centro, Lino Guanciale nel ruolo del bandito romano Luigi Vampa, trasformato nel fantomatico conte Spada

Quanto al figlio di Villefort, nella fiction ha il nome di Gaston, diventa un ladro, ruba del denaro a Caderousse e uccide un poliziotto.

Mancano poi del tutto, nella fiction, i travestimenti di Dantés, le sue due identità alternative di abate Busoni e lord Wilmore; ma forse, almeno, si evitano così le incongruenze legate all’aspetto sempre uguale del personaggio… [A proposito, io mi sono sempre chiesto come mai nessuno abbia mai pensato di togliere gli occhiali a Clark Kent per riconoscere in lui Superman, o come mai nessuno abbia mai notato che i baffetti di Zorro sotto la maschera sono identici a quelli di don Diego de la Vega…].

Ancora: la bella principessa Haydée nel romanzo è albanese e figlia del pascià Alì-Tebelen, nonché schiava di Dantés (nel senso letterale della parola, perché da lui comprata al mercato degli schiavi); ma nella fiction diventa una ragazza algerina, di colore, la cui presenza è finalizzata esclusivamente alla testimonianza contro Fernand Mondego, uccisore dei suoi genitori; dopo di che riparte (non si sa per dove) e lascia il conte da solo.

Karla-Simone Spence (Haydée nel film di Bille August)

Immensa è qui la differenza con l’originale, dove Haydée è l’unica donna ad amare immensamente, incondizionatamente e perdutamente il conte che l’ha salvata: «Oh, sì, io t’amo! Io t’amo come si ama il proprio padre, il proprio fratello, il proprio marito! Io t’amo come si ama la vita, perché tu sei per me il più bello, il migliore, il più grande degli esseri creati!». E alla fine del romanzo il conte, finalmente, comprende e accetta l’amore per quel suo “angelo diletto” («Amami, dunque, Haydée! Chissà, il mio amore, forse, mi farà dimenticare ciò che è necessario dimenticare») e parte con lei per iniziare una nuova vita.

Andrea Giordana e Mila Stanic nei ruoli del conte di Montecristo e Haydée; dallo sceneggiato di Edmo Fenoglio (1966)

Bille August invece, eliminando del tutto la storia d’amore con Haydée, prospetta alla fine del film un riavvicinamento fra Edmond e il suo antico amore Mercedes, che si incontrano in una rupe da cui si scorge il tetro castello d’If. Il conte allora, comunicando alla donna la sua intenzione di partire, aggiunge: «Sai, c’era un vecchio saggio che ho conosciuto nel Castello. Mi disse “Se vuoi vendicarti, scava prima la tua fossa. Aveva ragione»; ma le ultime parole sono di Mercedes: «L’amore può guarire». Un finale alternativo da ogni possibile punto di vista…

Si potrebbero elencare ancora tante (troppe) deviazioni dal romanzo, che però non impediscono al produttore Carlo Degli Esposti di dichiarare così in una recente intervista: «È la ricostruzione più fedele mai fatta finora. Palomar da sempre maneggia la letteratura con attenzione e rispetto» [sic!]. A questo punto però è opportuno aggiungere altre considerazioni.

Il dato più oggettivo è che la fiction ha avuto un notevole successo di pubblico, con ascolti altissimi. Basta leggere in rete i commenti delle spettatrici e degli spettatori per capire che il plauso è quasi unanime: “Bellissima serie” – “L’attore che impersona il conte è meraviglioso e affascinante, la fiction è stupenda. La fotografia fatta bene, insomma ti prende e ti appassiona” – “Una serie meravigliosa” – “È stata una serie davvero bella”; e via di questo passo, fra cuoricini ed esaltazioni dell’attore protagonista. Dunque la fiction è piaciuta e gli spettatori l’hanno seguita con piacere, alla faccia della fedeltà all’originale.

Ma del resto, non è questa l’epoca in cui l’intelligenza artificiale fa parlare qualunque persona in altre lingue (con la loro voce e con un labiale perfetto) facendole dire quello che si vuole? Ho visto di recente un video su Youtube in cui il nostro presidente della repubblica parla in inglese, spagnolo e giapponese con la voce clonata.

Arriverà, se non è già arrivato, il momento in cui ognuno di noi potrà essere clonato, reinventato e costretto a dire qualunque cosa (anche l’opposto di quello che normalmente direbbe), senza che si possa più notare la differenza fra reale e virtuale.

Allora perché qualche sopravvissuto dal paleolitico dovrebbe farsi scrupoli per un conte di Montecristo diverso da quello di Dumas?

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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