Riprendiamo la rassegna di vocaboli ed espressioni del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana. Eccone altri quattro.
1) Funcia – Come scrive Mortillaro, il termine “funcia” “dicesi della bocca dell’uomo, quando le labbra sono molto sporgenti”; il vocabolo (che in certe zone dell’isola si trova nella forma “fungia”) deriva propriamente da “fungo”; forse il termine è stato poi associato alle labbra carnose di animali come il maiale ed è stato poi applicato a persone dalla bocca grossa.
Una persona che ha “la funcia” è palesemente scocciata, di malumore, arrabbiata con l’universo creato; in genere questa espressione deriva da qualcosa che si è visto, sentito o subìto, per cui il risultato è “stari cu la funcia”, “mittìrisi cu tantu di funcia”.
![](https://pintacuda.it/files/2025/02/funcia-2.jpg)
Quasi sempre risulta inutile chiedere all’offeso di “levarsi ‘sta funcia”, perché i siciliani sono suscettibili quanto nessun altro al mondo, sono sempre pronti a offendersi a morte e a non dimenticare l’offesa (vera o presunta) per decenni. In tal caso, la “funcia” verso il colpevole è quasi eterna.
Va detto però che il termine “funcia” si può anche usare affettuosamente, ad es. quando si loda la “funcidda” di un bambino, cioè la sua guanciotta colorita e paffuta.
Sorvoliamo, invece, su un’espressione molto meno forbita e anzi decisamente oscena, che associa la “funcia” a un’altra parte del corpo…
2) Nòlito – In dialetto siciliano un “picciriddu” è “nulitusu” quando è “capriccioso” e fa perdere la pazienza ai genitori: quando un bambino non vuole mangiare, non vuole dormire e non ha “risiettu” (cioè continua a smaniare), si dice che ha “i nòliti”. Pazienza: gli passerà.
![](https://pintacuda.it/files/2025/02/nolito.jpg)
Più in generale, il “nòlitu” è il “desiderio capriccioso”, il “ghiribizzo” fuor di luogo anche da parte di persone adulte (con una percentuale maggiore di anziani un po’ “stòlidi”).
Il termine deriva dal latino “nolo”, che significava “non voglio” ed era l’opposto di “volo” (“io voglio”); in italiano ne resta traccia solo nell’espressione “volente o nolente”.
3) Strambiare – A proposito di anziani, con gli anni capita sempre più di “strambiare”, cioè di dare progressivamente i numeri, di rimbambire inesorabilmente. Traina spiega così il verbo “strammiari”: “errare colla mente, vaneggiare”. Insomma, a una certa età si diventa “strambi”; questo aggettivo è anche italiano (come pure il sostantivo “stramberia”), ma solo in siciliano c’è anche un verbo che definisce meravigliosamente l’incipiente demenza senile.
![](https://pintacuda.it/files/2025/02/strambiare.jpg)
Già che ci siamo, possiamo ricordare un’espressione che si usa abitualmente per dire che qualcosa in fondo non è così male come si poteva temere: “non è strambo” (con una litote popolaresca) si dice di una cosa che può piacere, ad es. un cibo assaggiato inizialmente con diffidenza (caratteristica, quest’ultima, riversata a dosi pantagrueliche nel DNA siciliano).
4) Mappina – Non è una piccola carta geografica, pur essendo un diminutivo di “mappa”; questa parola in siciliano indica uno strofinaccio e, più precisamente, un “pezzo di tela o panno, con che si leva la polvere o si pulisce l’umido da su checchessia” (Traina).
![](https://pintacuda.it/files/2025/02/mappina.jpg)
L’origine del termine è latina: in questa lingua, infatti, il sostantivo “mappa” significa “pezzo di stoffa, tovagliolo” ma anche “drappo” (con il quale si dava il segnale di partenza nei giochi del circo). In seguito, poiché gli agronomi eseguivano su tela la rappresentazione grafica di una zona di terreno, il termine passò a designare la “rappresentazione grafica di una zona”. Termini affini si trovano in francese (“nappe” è la “tovaglia”) e in inglese (“napkin” è il “tovagliolo”).
Fermiamoci qui: non vorrei strambiare troppo, farvi venire i nòliti e rischiare che mi mettiate la funcia, magari tirandomi una mappina.