Il poeta latino Quinto Orazio Flacco, nato a Venosa nel 65 a. C., pubblica nel 23 a. C., dopo avervi lavorato per circa sette anni, una raccolta di tre libri di Carmina (per un totale di 88 carmi), componimenti appartenenti al genere della poesia lirica; successivamente il poeta aggiunge un IV libro (15 odi).
La lirica oraziana non può essere intesa se non alla luce del rapporto organico con la tradizione greca; per quanto attiene alla produzione lirica, Orazio si definisce infatti, in più punti, un Alceo romano; l’autore latino si sentiva evidentemente in sintonia con il poeta di Lesbo, che, attraverso i canti civili, aveva dato voce alle sue ansie per le sorti della città.
Ma il problema va impostato in termini più ampi, e cioè alla luce del grande tema dell’imitatio e del suo rapporto con l’aemulatio, che investe globalmente l’intera letteratura latina, nel suo rapporto con quella greca; non è infatti un caso se l’interpretazione di Orazio lirico si è sempre legata alla questione, di ordine più generale, dell’originalità della produzione letteraria latina rispetto a quella greca.
Citando il modello, Orazio, nell’evocare le suggestioni che scaturivano da quell’autore, invita il lettore a individuare l’originale e a gustare, nel contempo, anche la novità della creazione; il testo “imitato”, è presente solo su un piano di “allusività”, affinché il lettore, che è naturalmente un lettore colto, sappia identificare il testo di riferimento, nonché lo “scarto”, cioè il ri-uso originale che di quel testo l’autore latino ha operato. Orazio fa uso del procedimento stilistico del “motto” iniziale: “il poeta, cioè, incomincia quasi citando uno o più versi iniziali della poesia da cui si ispira, e continua per una via diversa, del tutto nuova” (A. La Penna, Orazio e la morale mondana europea, Firenze,19893, p. LXXIV).
A parte Alceo, i modelli di Orazio sono, seppure in minor misura, Saffo e Anacreonte e, per la lirica corale, il posto di maggior rilievo spetta a Pindaro. Ma non poche suggestioni gli derivano anche dalla poesia alessandrina, oltre che sul piano del contenuto, anche, come si è visto, su quello della tecnica poetica.
Rispetto alla lirica moderna, la lirica oraziana non si propone di dare libero sfogo alle meditazioni e alle introspezioni; essa ha piuttosto un’impostazione dialogica, per cui i singoli componimenti sono quasi sempre rivolti ad un destinatario esplicito, reale o immaginario. Tale stilema, che era già proprio della tradizione letteraria (quella della lirica arcaica, ma anche quella catulliana ed elegiaca), potrebbe rispondere all’esigenza di celare la manifestazione dell’“io” del poeta dietro il convenzionale schermo di un “tu” sistematicamente adottato, oppure, come ha dimostrato M. Citroni, potrebbe costituire la traccia tangibile dell’“effettiva presenza di una cerchia di persone che si ponevano ad Orazio come naturali e opportuni punti di riferimento della sua comunicazione letteraria” (Occasione e piani di destinazione nella lirica di Orazio, in Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, 10-11, 1983, p. 213); si tratterebbe cioè, secondo lo studioso, di personaggi influenti della vita culturale e politica del tempo, cui il poeta ritiene opportuno indirizzare un messaggio di cortesia e che collocano nel contempo la sua poesia entro “una rete di rapporti reali di comunicazione letteraria”.
Ma è pur vero che il lettore non direttamente coinvolto in quel rapporto non si sente escluso dall’argomento del componimento, che ha un “taglio” generale e di ampio respiro; si può dunque affermare, sempre col Citroni, che “questo mondo intimo non ha, in nessuno dei grandi poeti augustei, la provocatoria esclusività del mondo catulliano” (I destinatari contemporanei, in Spazio letterario di Roma antica, vol. III, Roma, 1990, p. 105).
Temi ricorrenti, all’interno delle Odi, sono: la brevità della vita, la ricerca dell’equilibrio morale e della saggezza, il convito, l’amore, ma soprattutto la tematica civile. É all’interno di quest’ultimo filone che Orazio si fa cantore e portavoce dell’ideologia del principato, della quale dimostra di condividere l’impostazione moralistica, in sincero ossequio alla persona del pacificatore dell’impero.
L’ode I 15 metricamente è formata da un sistema asclepiadeo secondo (strofe di quattro versi, formate da tre asclepiadei minori e un gliconeo).
Viene presentata immediatamente la figura del protagonista, Paride, non nominato esplicitamente ma definito per antonomasia “pastore malfido” (pastor perfidus), con riferimento alla tradizione che lo presentava appunto come pastore sul monte Ida, ove era avvenuta la contesa di bellezza tra Giunone, Minerva e Venere.
Paride rapisce (traheret, v.1, allude al ratto violento, al “trascinare via”) la donna che lo ospita, Elena (Helenen… hospitam, v.2). Mentre Paride conduce via da Sparta l’amante sulle navi “idee” (cioè “troiane”, fabbricate col legname del monte Ida, nella Troade), sopraggiunge un’improvvisa calma di venti e Nereo, divinità marina, figlio di Oceano, dotato di spirito profetico, vaticina l’amara sorte che attende i due amanti fuggitivi.
Nei primi versi sono da notare gli iperbati allitteranti in enjambement: pastor…/…perfidus (vv. 1-2), fera…/…fata (vv.4-5); anche l’accostamento perfidus hospitam (v.2) evidenzia la violazione, da parte di Paride, del sacro vincolo dell’ospitalità: egli agisce appunto contro la fides, tradendo la fiducia riposta in lui da Menelao.
Secondo la profezia di Nereo, il rapimento di Elena avviene “con triste augurio” (mala… avi, v.5); infatti l’intera Grecia verrà a reclamare la restituzione della donna, giurando concordemente (coniurata, v.7) di mandare a monte le nozze adultere e di distruggere il regno di Priamo (il verbo rumpere al v. 7 è costruito in zeugma, reggendo nuptias e poi regnum).
Nereo preannuncia quindi numerose fatiche di guerra, comunicando a Paride che egli attirerà la rovina sulla gente troiana. Pallade stessa si appresta alla guerra (un polisindeto evidenzia ai vv.11-12 i preparativi bellici della dea, da sempre avversa ai Troiani). L’uso del presente (adest v. 9, moves v. 10, parat v. 12), benché in riferimento ad azioni future, si spiega con la vivacità della descrizione di Nereo, che “vede” davanti a sé i fatti annunciati profeticamente.
Paride viene descritto poi nella sua superbia (ferox, v.13), dovuta alla sicurezza dell’appoggio di Venere; l’eroe appare in atteggiamento languido, ben pettinato, intento ad intonare “canti graditi alle donne” (grataque feminis /…carmina, vv. 14-15) accompagnandosi con la “cetra imbelle” (inbelli cithara, v.15). Ma nonostante i suoi tentativi di evitare il combattimento “imboscandosi” nel talamo, egli è destinato a vedere i suoi “capelli da adultero” (adulteros / crines, vv.19-20: è un’efficace ipallage) intrisi di polvere.
Il tono si fa patetico: in anafora viene ripetuto l’avverbio nequiquam (“invano”, vv. 13 e 16), che sottolinea l’inutilità dell’aiuto di Venere. Inoltre l’esclamazione heu serus (lett. “ahimè troppo tardi”, v.19) allude al fatto che se Paride fosse morto prima, si sarebbe potuta evitare la rovinosa sorte di Troia.
Paride è braccato dai Greci: Odisseo, Nestore, Teucro, Stenelo (figlio di Capaneo e auriga di Diomede), Merione (compagno di Idomeneo), Diomede; in particolare il Tidide “smania di scovare” Paride (furit te reperire, v.27). Agli eroi greci, definiti impavidi (v. 23), si contrappone il vile (mollis, v.31) adultero, che dovrà fuggire come un cervo (cervus uti, v.29, con anastrofe) che vede il lupo dalla parte opposta della valle (vallis in altera /…parte, vv.29-30, con anastrofe, iperbato e enjambement); non è certo questa la promessa fatta da Paride ad Elena (non hoc pollicitus tuae, v.32). L’ira di Achille (letteralmente “la flotta adirata d’Achille”, v.33, con ipallage) ritarderà la resa dei conti; ma dopo gli anni decretati dalla sorte (post certas hiemes, v.35) gli Achei bruceranno Troia.
L’Ode I 15 è l’unica ode totalmente narrativa di Orazio; probabilmente si tratta di un componimento giovanile, che ha per modello Bacchilide (come afferma Porfirione, antico commentatore di Orazio); il poeta greco, peraltro, affidava la profezia a Cassandra e non a Nereo. Va detto inoltre che alcuni editori propongono di sostituire la lezione Nereus (v. 5) con Proteus (altro dio marino di cui, a differenza di Nereo, ben si conoscono dall’Odissea le virtù profetiche; tale lezione è attestata da Porfirione).
È evidente nell’ode oraziana la ripresa lirica di spunti tratti dalla tradizione epica greca (giudizio di Paride, ratto di Elena, guerra di Troia); in particolare si notano allusioni esplicite al brano dell’Iliade III 38-75, in cui Ettore rimprovera Paride per il suo comportamento imbelle.
Si hanno alcune riprese quasi letterali: la “cetra imbelle” (v. 15) ricorda la κίθαρις (kìtharis) dell’episodio omerico (v. 54); la chioma ben pettinata (v. 14) era citata anche nell’Iliade (v. 55); l’immagine di Paride che cade nella polvere (vv.19-20) riecheggia l’espressione omerica ὅτ’ ἐν κονίῃσι μιγείης (v. 55); la superba rivendicazione della protezione di Venere, da parte del Paride oraziano (v. 13), è sostanzialmente identica a quella dell’eroe omerico, che reclamava il riconoscimento dei “doni dell’aurea Afrodite” (δῶρ’ ἐρατὰ … χρυσέης Ἀφροδίτης, v. 64).
In Orazio viene però ulteriormente accentuata la componente “femminea” di Paride, sia perché egli viene mostrato nel “talamo”, circondato da donne (feminis, v.13), sia soprattutto perché manca ogni riferimento a un desiderio di riscatto da parte dell’eroe, che cerca anzi di evitare (invano!) ogni scontro di guerra (vv.16-19).
L’immagine di Paride nel talamo allude alla parte conclusiva del III libro dell’Iliade ove l’eroe, sottratto da Afrodite al duello con Menelao, veniva condotto nella camera da letto e ivi raggiunto forzatamente da Elena (vd. III 382 ss.).
È evidente che “il poeta presuppone nel lettore la piena e perfetta conoscenza dell’ Iliade, e presuppone anche la capacità di avvicinare quegli antichi fatti ad altri più recenti” (N. Terzaghi, La lirica di Orazio, Roma 19685, p.108); infatti molti critici hanno voluto scorgere nell’ode oraziana una possibile allusione ad Antonio e Cleopatra, con un intento di moralistica condanna nei confronti del condottiero romano, reso imbelle ed effeminato dagli usi orientali; già Cicerone, del resto, parlando di Antonio, aveva alluso ad Elena: “ut Helena Troianis, sic iste huic reipublicae belli causa, causa pestis atque exitii fuit” (Phil. II 55). Tale interpretazione condurrebbe a collocare cronologicamente l’ode nel periodo della battaglia di Azio (31 a.C.) e a scorgervi un’adesione agli ideali nazionalistici e “tradizionalisti” di Ottaviano, frontalmente opposti alla politica orientalizzante di Antonio; comunque sia, “l’allusione è ben nascosta: Orazio ha fatto lavorare la sua fantasia, senza curarsi troppo di contingenze reali” (Terzaghi, op. cit., p. 108).
Presentiamo l’ode nella traduzione di Enzo Mandruzzato, seguita dal testo originale latino:
Il pastore malfido rapiva per i mari / sulle navi dell’Ida la sua ospite, Elena, / quando una pace lugubre oppresse i venti rapidi / e Nereo profetò le loro amare sorti: / «Con triste augurio rechi la donna alla tua casa. 5 / Verrà tutta la Grecia con grandi schiere a chiederla, / e tutta giurerà di spezzare per te / queste nozze ed il regno venerando di Priamo. / Grandi pene vi attendono di uomini e cavalli, / grandi esequie tu muovi per la gente di Dardano: 10 / Pallade ormai ha pronti l’elmo e l’eterno scudo, / il suo carro di guerra e il suo furore. / Fatto superbo dalla protezione di Venere / pettinerai la chioma, scambierai con le donne / i deliziosi canti sulla cetra di pace 15/ invano: e invano scanserai nelle stanze / lance pesanti e acute punte di frecce cnossie / e il fragore d’Aiace veloce ad inseguire, / ma tristamente tardi la tua chioma curata, / la tua chioma d’adultero, s’intriderà di polvere. 20 / Non vedi dietro a te il figlio di Laerte / rovina del tuo popolo, e Nestore di Pilo? / T’inseguono, ti prendono quelli senza paura, / Teucro di Salamina, Stenelo che sa bene / battersi e quando occorre comandare i cavalli, 25 / instancabile auriga! Conoscerai Merione, / e il figlio di Tideo più valente del padre / lo vedo, atroce, selvaggio di trovarti: /fuggirai come il cervo che sull’altro versante / ha visto il lupo e scorda la pastura 30 / ansimando profondo, esausto, tu / che altro avevi promesso alla tua donna. / La flottiglia sdegnata d’Achille tarderà / quel giorno, per Ilio e per le madri frigie. / Passeranno contati inverni, poi le fiamme 35 / degli Achei arderanno tutte le case d’Ilio».
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TESTO LATINO
Pastor cum traheret per freta navibus
Idaeis Helenen perfidus hospitam,
ingrato celeris obruit otio
ventos ut caneret fera
Nereus fata: «Mala ducis avi domum 5
quam multo repetet Graecia milite,
coniurata tuas rumpere nuptias
et regnum Priami vetus.
Heu, heu, quantus equis, quantus adest viris
sudor! Quanta moves funera Dardanae 10
genti! Iam galeam Pallas et aegida
currusque et rabiem parat.
Nequicquam Veneris praesidio ferox
pectes caesariem grataque feminis
inbelli cithara carmina divides; 15
nequicquam thalamo gravis
hastas et calami spicula Cnosii
vitabis strepitumque et celerem sequi
Aiacem: tamen, heu serus, adulteros
crines pulvere collines.
Non Laertiaden, exitium tuae 20
gentis, non Pylium Nestora respicis?
Urgent inpavidi te Salaminius
Teucer, te Sthenelus sciens
pugnae, sive opus est imperitare equis, 25
non auriga piger; Merionen quoque
nosces. Ecce furit te reperire atrox
Tydides melior patre,
quem tu, cervus uti vallis in altera
visum parte lupum graminis inmemor, 30
sublimi fugies mollis anhelitu,
non hoc pollicitus tuae.
Iracunda diem proferet Ilio
matronisque Phrygum classis Achillei;
post certas hiemes uret Achaicus 35
ignis Iliacas domos».