Il termine italiano “rivelazione” deriva evidentemente dal latino; in questa lingua però il sostantivo revelatio è attestato solo in epoca tarda, in Arnobio (IV sec. d.C.) e negli autori ecclesiastici.
Tuttavia in epoca classica esisteva un verbo revēlo, -are che significava “scoprire” e, più precisamente, “denudare”: revēlant frontem “scoprono il volto” (tagliandosi barba e capelli), dice Tacito dei Catti (popolazione germanica, cfr. Germania 31, 2). Il verbo voleva dire anche “svelare, rivelare, chiarire” (e con questo significato lo si trova in Ovidio e Apuleio).
Il verbo revelare è composto dal sostantivo velum “velo” e dal prefisso re-/red– che indicava un movimento a ritroso (es. re-cedere “tirarsi indietro”, red-ire “ritornare”) o il ritorno ad uno stato anteriore (re-ficere “riparare”, re-stituere “restaurare”) o un movimento in senso contrario che distrugge ciò che è stato fatto (re-cludere “aprire” e, per l’appunto, re-velare “scoprire, togliere il velo”). Dunque il verbo “rivelare”, come “svelare”, denota l’azione di “togliere il velo” a qualcosa che prima è stato “coperto”; si tratta di un “dis-velamento” che riporta alla luce qualcosa che è stato occultato ma la cui esistenza sospettavamo e conoscevamo di già.
Non a caso Teresa Scelsi, in uno scambio di opinioni che abbiamo avuto, ha così definito le sue “rivelazioni”: «Ho inteso il concetto di “rivelazione” in senso affine a quello di metamorfosi ma in senso positivo, ossia il passaggio dall’inconsapevolezza alla pienezza della scelta, dalla stretta delle convenzioni e delle tradizioni alla libertà, dall’infanzia favolosa e numinosa alla maturità dove tenebre e luce si alternano a volte in maniera contradditoria, dalla solitudine alla scoperta dell’altro».
Da questo desiderio di “togliere il velo” a sensazioni provate e mai esplicitate, a vicende accantonate ma non dimenticate, a storie mai narrate e che dovevano essere narrate, è nato questo volume, composto da dieci racconti, che – come si legge nella quarta pagina di copertina – sono «ispirati prevalentemente a fatti realmente vissuti dall’autrice, che spaziano dal passato della seconda guerra mondiale, con le sue ferite mai del tutto rimarginate, al presente di una Palermo fortemente pervasa dalla criminalità mafiosa. Nonostante un’apparente discontinuità, le storie ruotano intorno a un forte nucleo tematico: la forza deflagrante delle rivelazioni e le conseguenti scelte che i personaggi sono costretti a compiere quando si trovano faccia a faccia con la realtà. Tra desideri, dubbi e paure, i protagonisti sceglieranno di addossarsi responsabilmente il peso doloroso degli eventi, e scopriranno che anche un piccolo gesto di cura è in grado di salvarli e in definitiva di rendere il mondo un posto migliore».
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A Palermo la prof. Teresa Scelsi è ben nota ed universalmente stimata per la sua preziosa attività quasi quarantennale di insegnante di Italiano e Latino nei licei. Come dicono le note biografiche del libro, «ama considerarsi una trafficante di parole e anche dopo la pensione ha continuato a praticare il vizio di insegnare e di imparare”: infatti insegna come volontaria ai giovani, ma anche ai meno giovani (presso l’Università popolare della terza età, Auser). Negli ultimi anni, dicono sempre le note, “ha raddoppiato l’impegno attivando un corso dedicato al racconto al femminile, grazie al quale ha scoperto la passione per la scrittura”; forse però, più che “scoprirla”, l’ha appunto “ri-velata”, valorizzando una dote già presente e latente in lei.
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La nuova vocazione letteraria mira anche a ribadire con la scrittura «i principi fondanti della sua esistenza, passione e rigore», che ha sempre cercato di trasmettere ai suoi allievi, «battendosi sempre per affermare i valori della legalità e della libertà contro le sopraffazioni della cultura patriarcale e mafiosa, ancora fortemente radicata in Sicilia».
Teresa, fin dai suoi primi esperimenti letterari, ha privilegiato la forma del racconto a quella del romanzo; mi ha confidato che in un colloquio con Giosuè Calaciura gli ha sentito dire che il genere del racconto meriterebbe da noi più consensi (come avviene nel mondo anglosassone) perché sintetizza in modo più immediato ed efficace l’esperienza umana e lascia al lettore, attraverso il non detto, un maggior margine emotivo.
Da qui, dunque, i dieci racconti che compongono il volume “Rivelazioni”, edito dal Gruppo Albatros, che spesso hanno per protagoniste tenaci e coraggiose, che lottano per ciò in cui credono a dispetto del contesto patriarcale e retrogrado in cui si trovano a vivere.
Le donne di questo libro, come avviene nella realtà, patiscono l’isolamento (come Margherita ne La casa di fronte), sentono le sirene di un mondo dorato che la criminalità può regalare per qualche ora (Valeria nel racconto omonimo), provano il disprezzo e lo stupro (Carmela in La volontà di Dio) oppure la calunnia e il dolore (come “Tiritella”, la protagonista di Pandemia) e si dibattono per affermare ciò in cui credono a dispetto di una cultura patriarcale e arretrata.
In tal senso, è emblematica la bella copertina disegnata da Giulia Bonanno, nipote di Teresa, che rappresenta l’uscita da una grave condizione esistenziale (in particolare una grave malattia) facendone un passaggio dalle tenebre alla luce; una giovane donna apre una porta lasciandosi alle spalle il buio e scopre davanti a sé una luce accecante: questa luce sarà la sua salvezza o l’accecherà definitivamente?
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Ognuno dei dieci racconti offre una lettura interessante e ricca di spunti di riflessione.
Il primo racconto, “Il bambino avanzato”, deriva da un’esperienza reale dell’autrice, che alcuni anni fa trovò casualmente un bambino abbandonato nell’area di servizio di Caràcoli vicino Termini Imerese, rintracciò i genitori e li segnalò alle forze dell’ordine.
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L’episodio è affidato alla voce narrante di una professoressa single, Lidia Caputo, nel contesto di un suo ritorno alla casa di famiglia a Gibilmanna; si addensano qui i ricordi personali dell’autrice, che la riportano in quell’antica casa popolata da nove persone (i genitori, le due figlie con i mariti e i tre figli di entrambe). Ai ricordi struggenti si accosta l’amarezza per le successive separazioni dolorose e per la disgregazione dell’antica unità familiare.
Il ritrovamento del bambino abbandonato diventa per Lidia l’occasione per dare una svolta alla sua vita; chiedendo l’affido del bambino (ma alla fine gliene saranno affidati due), la donna cerca un risarcimento affettivo e familiare per le troppe dolorose vicende passate, soprattutto per la separazione fra i suoi genitori, negligenti e narcisisti, che avevano messo fine «ad un matrimonio fatto di incomprensioni e di silenzi»: «Due pianeti diversi che avevano orbitato per anni intorno ad un sole più per dovere che per convinzione e meno ancora per dedizione» (p. 12).
Nell’antica casa padronale è costante l’altalena fra passato e presente; i ricordi si riaffacciano alla mente, ora struggenti ora quasi sgradevoli, specialmente quando vengono a collidere frontalmente con un presente dimesso e arido. Il clima idilliaco di recupero memoriale cozza con le asprezze del presente, riacutizzate da alcuni pungenti scambi di battute fra padre e figlia.
Il secondo racconto, “Rivelazioni”, denuncia l’isolamento di molti paesi siciliani di montagna, ove l’unico gesto di appartenenza politica era la partita a carte alla Camera del Lavoro o al circolo dell’Azione Cattolica.
Ambientato nel secondo dopoguerra nel paese (non nominato espressamente) di Gratteri, vi si racconta il ritorno in paese di Filippo, che ha combattuto in Russia nell’Armir, l’Armata italiana in Russia, il corpo di spedizione che operò nel 1942-43 nella zona del Don. Costituita nel luglio 1941 al comando del generale Giovanni Messe, e composta da circa 230.000 uomini, fu coinvolta nella disfatta di Stalingrado e nella successiva ritirata, contando più di 84.000 perdite tra morti e dispersi.
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Qui l’autrice, che si è ben documentata, consultando soprattutto il libro “Prigionieri italiani in Russia” di Maria Teresa Giusti (edito da Il Mulino), ricostruisce attraverso i ricordi di Filippo una delle più cupe pagine della storia della II guerra mondiale: «Che c’era da dire su un esercito di disperati, mandati al macello con le scarpe di pelle, che tra l’altro venivano subito rubate dal nemico, perché di buona fattura e la bustina come copricapo nel pieno dell’inverno russo con 40 gradi sottozero mentre i nemici avevano stivali di feltro pesanti e colbacchi di pelo? Dalla ritirata sul Don, alle lunghe ed estenuanti marce, che i Russi chiamavano “davai”, che duravano giorni e giorni in mezzo alla tormenta, ai trasferimenti continui da un campo all’altro durante i quali aveva visto morire più di metà del suo battaglione, tutto era da dimenticare» (p. 36).
Al ritorno dalla guerra Filippo, che ostenta una fede comunista, si accorge che, al di là delle sigle di partito, lui resta un contadino povero; non si orienta nelle trasformazioni seguite alla guerra e di fronte alla “restaurazione democristiana” trova come unica soluzione l’esilio in Argentina mentre il suo amico Saro (già rimasto al paese durante la guerra) sceglie ancora di restare, nell’attesa che suo fratello maggiore, Peppino, torni a sua volta dalla Russia.
Ne risulta un quadro amaro e disilluso dell’Italia del dopoguerra, nella quale le speranze di concreti miglioramenti sociali ed economici vengono rapidamente disperse; in questo contesto, le ideologie si annebbiano, il qualunquismo della disperazione emerge prepotentemente e le scelte drastiche diventano inevitabili, come quando Filippo opta per l’emigrazione in Argentina.
Il terzo racconto, “Caffè? Sì, grazie” si ricollega a un’esperienza reale vissuta dall’autrice in occasione di un progetto realizzato al Liceo classico “Umberto I” di Palermo nei primi anni del Duemila, grazie soprattutto all’interessamento del preside Antonino Raffaele; quella esperienza rivive attraverso la figura della voce narrante, quella della prof. Grazia.
La donna viene coinvolta in un progetto di volontariato stipulato fra il suo liceo e il carcere minorile “Malaspina”. L’istituto di pena viene descritto subito con un pathos sincero e struggente: «Là dentro ci sono ragazzi che studiano, che giocano a pallacanestro o a pallavolo, magari a scacchi, che creano oggetti con le loro mani, che si amano e si detestano e che vorrebbero ammazzarsi per uno sgarbo. Lì dentro quei ragazzi fanno delle cose. Riempiono ore altrimenti vuote solo per non pensare, per cercare di non vedere sulle loro anime, a volte anche sui loro corpi, i segni atroci della violenza riversata sugli altri o vissuta su sé stessi; recano sui volti di bambini la maschera insensibile di chi al male ha risposto col male e se ne ride perché sa che quella maschera lo renderà più forte; solo raramente quella maschera è attraversata da qualche lacrima, per lo più tardiva. Quel luogo è il carcere minorile della mia città. Si chiama Malaspina ed è un bell’edificio settecentesco, ubicato in piena città, tra palazzoni anonimi, mentre immagino che in passato si trovasse in campagna, circondato da giardini lussureggianti e agrumeti» (p. 45).
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Ben diversa è la realtà della scuola di appartenenza della narratrice: «I miei allievi e le mie allieve sono di un’altra pasta, vengono dalla buona borghesia, indossano scarpe da duecento euro, non usano la parlata sgangherata e cantilenante dello Zen, di Vergine Maria o di Borgo Vecchio, non si nutrono di spaccio quotidiano» (p. 46).
La prof. Grazia aderisce a un progetto di volontariato, con un incarico ben preciso, cioè quello di dare lezioni a un sedicenne proveniente da Crotone, imputato di omicidio premeditato; il ragazzo, al momento dell’arresto, frequentava il terzo anno del liceo scientifico con ottimi risultati, per cui il magistrato di sorveglianza e la direzione del carcere avevano pensato di fargli continuare gli studi all’interno del carcere, in attesa del processo fissato a giugno; poiché si era a dicembre, si trattava di seguirlo quasi per un intero anno scolastico.
L’esperienza viene accettata da Grazia con entusiasmo; qui risulta molto pertinente, per chi ha fatto il nostro mestiere, il riferimento alle (troppe) riunioni preliminari ai progetti che di fatto non risultano mai concrete e davvero formative: «Mi sobbarcai lunghe riunioni a cui partecipavano magistrati, psicologi, educatori che mi passarono al vaglio e mi spiegarono cosa dovevo fare esattamente; ma non mi dissero come farlo, quello era un problema di metodo, di strategie comunicative che solo io potevo decidere» (p. 47).
Non a caso, il rapporto di Grazia con il ragazzo, di nome Antonio, stenta a decollare. Il reiterato rifiuto del caffè offerto dal direttore all’inizio delle lezioni ratifica uno stato d’animo caratterizzato da nervosismo e disagio, da un senso di inadeguatezza dell’insegnante di fronte a un’esperienza didattica così particolare e anomala. Grazia non riesce ad instaurare un’efficace relazione educativa con Antonio e sente sprofondare l’impegno quotidiano in una monotonia asettica e avverte “l’ostilità malcelata” del ragazzo nei suoi confronti (p. 50).
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La svolta avviene quando l’insegnante lavora su se stessa, trovando in sé le strade dell’empatia e della disponibilità; accetta quindi “quel famoso caffè” (p. 52) che più volte le era stato inutilmente offerto, facendolo seguire da un atteggiamento diverso anche a livello fisico, che segnala il tentativo di “costruire un’altra se stessa”, più adatta al momento specifico. Il caffè è come un talismano, una metafora della necessità di trovare una breccia nelle proprie convinzioni per aprirsi ad una nuova prospettiva, che permetta di incontrare l’altro. Senza quel caffè e senza i gesti che lo accompagnano, la confessione del ragazzo non ci sarebbe stata. Il ragazzo infatti si confida e racconta la sua versione dei fatti riguardo all’accusa di omicidio nei suoi confronti.
Al termine di questa sconvolgente esperienza didattica, Grazia ormai è cambiata dentro e non se la sente più di tornare nella sua scuola: «L’ho fatto e basta. Ho lasciato il mio liceo ed ora insegno ai giovani detenuti del carcere Malaspina» (p. 54).
Il quarto racconto, “I silenzi di San Todaro”, fu scritto per primo dall’autrice, dopo la morte di sua madre, nel tentativo di trovare una spiegazione alla morte del nonno, soprastante in una masseria sperduta, che in quel luogo era stato assassinato molti anni prima.
La voce narrante della figlia, nel momento della morte della madre, rievoca anzitutto il suo difficile rapporto con lei: «Lei bellissima io bruttina, lei tutta casa e chiesa, io me la facevo tra collettivi e cortei di protesta. Con lei non potevo parlare di arte, cinema, letteratura ma solo di cronaca rosa e gossip dove si rivelava imbattibile perché io non seguivo le trasmissioni televisive del pomeriggio» (p. 56).
Sul letto di morte, però, la madre invita la figlia a ricordarsi del nonno ucciso; ciò la induce a tornare a San Todaro per riaprire il “cold case” dell’antico omicidio. La narratrice tuttavia non è il commissario Montalbano e riesce solo a intuire una possibile matrice passionale del delitto.
L’omicidio del nonno in “una fosca sera di gennaio” (p. 61) ne fa una sorta di padre pascoliano (con l’aggravante della mancanza di una loquace cavallina storna), ma emerge poi una sua “doppia vita” con una violazione di una regola “feudale” (“niente donne”).
Se il delitto resta ammantato da nebbie oscure, il finale del racconto, elegiaco e melodrammatico, presenta la riconciliazione fra il personaggio e i suoi ricordi giovanili: vengono rievocati luoghi e personaggi del paese, ormai quasi disabitato. In quello scenario quasi desertico, si affaccia potente la rievocazione della bambina di un tempo: «Una bambina, attraverso le sbarre della ringhiera, mi fissa intensamente. Ha i capelli chiari e gli occhi azzurri. La riconosco. Sono io. Adesso ho l’impressione di sentire una musica provenire da una radio. Una serenata o semplicemente una canzonetta? “La ragazza del mio cuore sei / ma baciare non ti posso mai. / Sempre tra la gente te ne stai / e sola non vuoi uscire mai con me”. È per me o per le tante Concette, Margherite, Marie che affollavano allora le strade e che adesso chissà dove sono? Certamente per loro che, nella gioiosa speranza dei loro sedici anni, sognavano che il loro amato le svegliasse nel cuore della notte non con stornelli o madrigali che non si usavano più da tempo ma con le note di un motivetto che spopolava in quegli anni Sessanta, cantato da uno, allora molto famoso ma di cui non riuscivo mai a ricordare il nome» (pp. 68-69). Per la cronaca, la canzone era “Baci” ed era cantata da Remo Germani; era il 1962.
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Piuttosto complesso e diverso dagli altri racconti è “Il Cavaliere di pietra”; il racconto è stato ispirato all’autrice da un amico durante un viaggio in treno da Pisa a La Spezia, nel corso del quale le raccontò la storia del capitano Jacob , che gli era stata narrata da sua madre. Questo Jacob (il cui vero nome era Rudolf Jacobs) era il comandante di un presidio nazista, che in seguito era passato tra le fila partigiane insieme con il suo attendente Paul.
Il racconto è ambientato a Bamberga in Baviera, nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino. Qui il narratore (in questo caso l’autrice si è avvalsa di un alter ego maschile, che è un docente universitario di Letteratura greca) incontra casualmente l’attendente Paul, che gli narra la vicenda di Jacob, assolutamente vera (ne sono stati tratti un romanzo e un film).
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Molto suggestiva è l’ambientazione tedesca, con la descrizione del “Cavaliere di pietra” che si trova nel duomo di Bamberga: «La statua, a grandezza naturale, collocata su una mensola, raffigura un cavaliere senza barba, con la corona, senza armi; il capo eretto, lo sguardo fiero rivolto in avanti. La corona e la posizione sul cavallo indicano che si tratta di un nobile di alto lignaggio, che incarna tutte le virtù della cavalleria medievale tedesca» (p. 73). Presso questa statua, come ricorda Paul al narratore, veniva Claus Schenk von Stauffenberg, l’autore dell’attentato fallito contro Hitler del 20 luglio 1944.
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La figura del capitano Jacob, il “tedesco buono” che passa tra le fila partigiane, si contrappone radicalmente al cliché del tedesco fanatico, guerrafondaio e più o meno inconsapevolmente nazista: «era un uomo mite, molto lontano dalla rappresentazione corrente dei tedeschi, con un grande senso dell’onore e del compito a lui affidato» (p. 77). La sua decisione deriva da convinzioni radicate: «fu una profonda sete di giustizia e una indicibile riprovazione delle leggi razziali e dell’aggressività nazista a spingerlo a compiere quel gesto» (p. 80). Essendo un architetto, era convinto che il suo compito sulla terra fosse di costruire e non di distruggere (ibid.).
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Anche in questo racconto c’è una donna: è Matilde, la moglie del narratore; ma, impegnata com’è in attività turistiche e in una sorta di shopping compulsivo, non ascolta la storia e anzi alla fine interrompe l’incontro fra i due uomini; in questo personaggio, come mi ha confessato l’autrice, «c’è anche una certa critica da parte mia al disinteresse verso la politica che le donne hanno mostrato per secoli non per loro difetto o incapacità ma per una assegnazione discriminatoria degli spazi: quello pubblico agli uomini; quello privato alle donne. Per fortuna non è più così».
Il sesto racconto, “Il principio di causalità”, è ambientato nel fatidico 1992, con inizio a maggio, il mese dell’attentato a Giovanni Falcone. Il testo è nato da un incontro tra l’autrice (qui adombrata nel personaggio della prof. Alberighi) e Giovanni, un suo ex allievo del liceo scientifico “Benedetto Croce” nel quartiere di Ballarò, presso il quale insegnò per undici anni; questo antico alunno è poi diventato un libraio e lo è tuttora.
La storia di Giovanni, figlio di un libraio palermitano, si intreccia con quella di altri due Giovanni: Giovanni di Dio (1495-1550), tipografo e libraio portoghese, fondatore dell’Ordine dei Fratelli della Misericordia di S. Giovanni di Dio (o “Fatebenefratelli”); e Giovanni Falcone, vittima dell’attentato del 23 maggio.
Il titolo del racconto deriva da una versione assegnata a Giovanni in classe; si tratta del famoso inizio del De brevitate vitae di Seneca: “Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignimur…”.
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Il problema del quod (causale, dichiarativo, relativo o prolettico), che assilla il giovane studente, troverà soluzione, in seguito, non tanto nella sintassi quanto nelle vicende stesse della vita di Giovanni, in cui il “principio di causalità” avrà un ruolo rilevante.
Viene anche ricordato un astuto espediente (storicamente vero…) adottato da Giovanni nei giorni delle versioni di Latino (che fatica si faceva, una volta, a copiare le versioni di Latino, senza le comodità tecnologiche di oggi): «Giovanni non aveva il vocabolario di latino. Non l’aveva dimenticato, non l’aveva proprio portato. Era una strategia già sperimentata; il suo piccolo segreto. Ogni volta che c’era la versione infatti, con questo pretesto chiedeva il permesso di uscire dall’istituto, raggiungeva la libreria del padre che distava pochi minuti di strada e prendeva un dizionario dagli scaffali, poi si precipitava a cercare il traduttore, uno di quelli dalla copertina rosa della Società Editrice Dante Alighieri, che il padre teneva ben allineati in ordine alfabetico per autore a partire da Aulo Gellio» (p. 89).
In seguito, vivendo la tragica esperienza della malattia e morte del padre, vittima di un’intimidazione mafiosa, Giovanni trova come unica consolazione la lettura di un libro più volte consigliatogli dal padre e mai letto prima, “Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio”.
San Giovanni di Dio, al secolo João Cidade Duarte (1495-1550), fu un tipografo e libraio, fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, o Fatebenefratelli, un istituto religioso laicale maschile di diritto pontificio; è il santo patrono degli ospedali, degli ammalati e degli infermieri, dei librai e dei tipografi, nonché della città di Granada.
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Quando Giovanni apprende dalla televisione la notizia della morte di Falcone, della moglie e degli agenti della scorta, il confronto fra i due Giovanni gli sorge spontaneo: «Un altro Giovanni! Uno era stato preso per pazzo per il troppo amore per Dio e deriso e picchiato; l’altro, dopo aver scoperchiato il vaso di Pandora che occultava i veleni della città, abbandonato alla vendetta dei Giuda travestiti da apostoli» (p. 95).
Dopo la morte del padre, Giovanni medita di lasciare Palermo, la sua “città avvelenata” (p. 97), andando a Livorno per la selezione al corso Allievi ufficiali della Marina Militare. Tuttavia le parole della professoressa Alberighi riescono a fermarlo in tempo e a fargli comprendere il suo vero destino: «Nessuno sfugge al proprio destino, ma sappi che l’unico destino è quello che ci costruiamo noi. E questo vale per le persone come vale per le città. Omnia scribenda nobis» (p. 97).
L’ultimo consiglio dell’insegnante è quello di rileggere il De brevitate vitae; solo così finalmente comprenderà il valore causale di quel famigerato quod. Chiamato anche lui a scegliere fra partire e restare, deciderà di rimanere a Palermo, proseguendo l’attività del padre e ricevendo molti anni dopo dal sindaco un attestato di merito per la sua attività civile e culturale.
Il settimo racconto, “La volontà di Dio”, ripropone un’ambientazione negli anni della seconda guerra mondiale, fra il 1940 e il 1943. La vicenda è presentata da un narratore esterno.
La protagonista femminile, Carmela, figlia di un negoziante di panni, sposa il “locco” Giacomino quando è già incinta di un altro; subisce poi la violenza di un ufficiale tedesco e dà alla luce un bambino dai capelli “biondi e lisci” (p. 115).
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La donna appare forte, determinata, seducente, consapevole della sua sensuale bellezza: la scena dell’incontro d’amore con Giacomino in un magazzino ricorda “La lupa” verghiana, soprattutto nel momento in cui l’uomo, apprendendo che per lei “non è la prima volta” (p. 106), afferra una falce dal muro, facendone però un uso inaspettato: «Abbagliato dalla luce solare e barcollante per il malessere, sfiorò il cespuglio di rose selvatiche che formava un arco trionfale intorno alla porta di ingresso, usò la falce per tagliare dei rami che in punta recavano ciuffi di roselline di un rosa tenue e delicato e col coltellino appuntito che portava sempre con sé, stette bene attento a mondarli dalle spine. Rientrando vergognoso, le offrì a Carmela, accennando un sorriso. – Sia fatta la volontà di Dio – disse e finalmente si spogliò anche lui» (p. 107).
Una curiosità: nel racconto il personaggio di Vincenzo, fratello minore di Giacomino, allude alla figura del padre dell’autrice, che andò volontario nella campagna d’Africa del 1935 e tornò come reduce dopo undici anni.
L’ottavo racconto, “Pandemia”, è stato scritto durante il lockdown, sotto l’effetto di una rilettura straniante de “La casa di Asterione” di Borges.
La narratrice (di cui viene citato a un certo punto il nomignolo infantile di “Tiritella”, p. 120) racconta il suo rapporto con una vicina, Caterina, inizialmente frequentata attraverso lo schermo del computer. Dietro il personaggio di Caterina si cela Giusi di Ganci, scomparsa prima che il racconto fosse completato dall’autrice, che viene così citata nei ringraziamenti che chiudono il volume: «Ringrazio Giusi Di Ganci che dal cielo si vedrà raffigurata in un personaggio che incarna l’empatia e la presa in cura che in fondo sono il tema portante di questo libro» (p. 161).
“Pandemia”, come mi ha segnalato l’autrice, è il racconto più autobiografico di tutti: «Doveva essere una specie di bilancio consuntivo della mia vita segnata da molti eventi luttuosi che rievoco forse al fine di rielaborarli e consegnarli definitivamente all’oblio».
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Tiritella, come Asterione, ha una natura duplice e contraddittoria: «Tra un’apparizione e un’altra di Caterina mi sono guardata allo specchio e mi sono vista metà umana e metà ferina. Come Asterione, nel racconto di Borges, ho due nature, una compassionevole e morbida, come pasta di pane, desiderosa di gioco e di carezze, l’altra, per la cautela e la distanza, inflessibile e dura» (p. 119).
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La forzata permanenza in casa (una casa in cui ogni stanza corrisponde a una “stagione della vita”, p. 120) diventa il pretesto per excursus memoriali più o meno lieti: viene così attuata “una collaudata tecnica mistificatoria, che rimodella incessantemente il passato manipolandolo per cancellare i ricordi dolorosi” (p. 124).
La casa è come un labirinto, in cui si procede senza bussola; e ricorda anche il cartellone del gioco dell’oca: «Altre volte devo districarmi sul cartellone del gioco dell’oca e mi tocca saltare caselle o tornare indietro per rifare lo stesso percorso senza avere trovato la giusta direzione, scontando errori e ripetendo le mosse col solo risultato di imparare a mie spese» (p. 121).
In particolare la narratrice ricorda due episodi lontani, quello della calunnia architettata ai suoi danni da un ragazzo dell’istituto professionale (p. 126) e quello della morte della giovane zia, che segnò per lei la fine dell’infanzia. Entrambi gli episodi furono in qualche modo una “rivelazione” ; e anche ora, nel recupero memoriale, il periodo della pandemia diventa occasione di “dis-velamenti” e di modifiche nel normale tran-tran quotidiano.
Ciò avviene anche attraverso il rapporto con la vicina Caterina, gravemente malata; e il gesto generoso di Caterina, che suona alla porta della vicina portandole un piatto di arancine e un buon libro (L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafòn) serve a far comprendere la necessità di “restare umani”, per non darla vinta al “nemico”, cioè al virus malefico della pandemia (cfr. p. 128).
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Il nono racconto, “Valeria”, è narrato in prima persona dalla protagonista, una quarantenne sensuale, opportunista ed arrivista, che prima diventa l’amante del suo datore di lavoro (il dottor Rizzo) e poi sposa un facoltoso imprenditore edilizio (Graziano Billeci).
L’autrice ha inteso qui rappresentare una certa Palermo, che vuole “innalzarsi” e fare il salto di qualità attraverso l’abbraccio mortale con la mafia. Valeria è abile nel fare le sue mosse, con lo scopo di sottrarsi a un’esistenza grigia (a quasi 40 anni per motivi economici vive ancora con la madre) e di arrivare a un benessere appagante.
Tuttavia il marito imprenditore finisce in galera per collusioni con la mafia e a Valeria tocca l’ingrato compito, ogni martedì, di portare all’Ucciardone i viveri per il marito detenuto. Quando la donna si stufa, esasperata dalla stanchezza e dai dubbi, al suo fianco trova Paola, un’avvocata impegnata ad assistere le donne vittime di violenza: «Fin dall’inizio ho capito che negli occhi di Paola c’era una passione bruciante, la scelta di lottare a fianco delle donne per le donne, la fede nella dignità del genere femminile» (p. 138). E forse Paola si rivela l’ancora di salvezza di Valeria, che le consentirà di uscire dal tunnel del suo bieco opportunismo per riscoprire in sé la dignità dell’essere donna.
L’ultimo racconto, “La casa di fronte”, rievoca esperienze dell’infanzia a Gratteri dell’autrice, che in paese trascorreva le vacanze. La narratrice, una prof. Amato originaria di Villaura (cioè Gratteri), eredita una casa in paese, già appartenuta a una tale Margherita Spadafora, da lei conosciuta quando aveva preso in affitto da lei una casa sopra la farmacia.
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La narratrice, che si era iscritta in Lettere dopo un’esperienza negativa a Farmacia, ambisce a diventare scrittrice; per lei Margherita è dunque una fonte di ispirazione, perché ha una straordinaria attitudine a raccontare storie. Vengono ricordate, in particolare, quattro storie della tradizione di Gratteri, cui potremmo dare i titoli, rispettivamente, di “Il mostro del torrente”, “Il pastore e la vecchia”, “I frati di san Giorgio” e “La saggezza di Petru Fudduni” (cfr. pp. 148-152).
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Le storie del folklore di Gratteri fanno però da preludio alla storia, ben più reale e tragica, di Leonardo Caruso (sotto cui si cela Leonardo Vitale, 1941-1984, primo collaboratore di giustizia dopo il “proto-pentito” degli anni ’30, Melchiorre Allegra di Gibellina); della sua vicenda parla Salvatore Parlagreco nel suo libro “L’uomo di vetro” (1998).
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Margherita racconta alla prof. Amato un episodio di quarant’anni prima: era stata convocata dai carabinieri perché la casa dove ora abita la narratrice doveva ospitare questo Leonardo Caruso. L’emblematica vicenda del primo collaboratore di giustizia viene rievocata in alcune righe che sono anche un documento storico: «Aveva una carriera criminale di tutto rispetto, cominciata a undici anni con l’uccisione prima di un gatto, poi di un cavallo e infine di un uomo. Dopo un periodo di detenzione, di punto in bianco si era recato in questura e aveva denunciato i suoi delitti facendo anche i nomi di mafiosi importanti; non è chiaro cosa lo abbia spinto verso questa decisione: vendetta, bisogno di espiazione, malattia mentale? Ricordo che i giornali erano pieni di notizie e fotografie che lo riguardavano. Io mi ero appassionata al fatto fin dagli inizi. Confesso che quel ragazzo dagli occhi azzurri, bellissimi, persi nel vuoto e dall’espressione spaventata mi incuriosiva e mi interrogavo su cosa lo avesse spinto ad autoaccusarsi e fare i nomi di criminali eccellenti che avevano solo una cosa in mente: eliminarlo o renderlo inoffensivo. Infatti, dopo una serie di arresti, conseguenti alle sue rivelazioni, i boss furono tutti scarcerati, i pochi che finirono a processo furono assolti per insufficienza di prove e l’unico ad essere condannato fu quel ragazzo non so se più ingenuo o pazzo. Addirittura a trent’anni! Ma intanto aveva subito diversi ricoveri in ospedali psichiatrici insieme a manipolazioni e torture di ogni specie, compreso l’elettroshock. In appello fu dichiarato infermo di mente con una sentenza che rendeva anche le sue accusa inattendibili» (p. 153).
Margherita ha modo di conoscere meglio Leonardo e si fa un’idea più precisa su di lui: «Era un uomo tormentato ma non credo che fosse pazzo. Volevano farlo sembrare pazzo, da tutte le parti; la madre per salvargli la vita, la mafia per rendere inattendibili le sue rivelazioni, le forze dell’ordine perché lo consideravano una bomba pronta ad esplodere» (p. 155).
In seguito, Leonardo viene ricoverato per tre anni in un manicomio del Nord; quando viene dichiarato guarito ed è dimesso, pochi mesi dopo viene ucciso all’uscita dalla Messa tra le braccia della madre e della sorella (il fatto avvenne il 2 dicembre 1984 ai Cappuccini). Margherita afferma di aver ricevuto delle lettere di Leonardo dall’ospedale e promette alla narratrice di fargliele leggere; in seguito però viene trasferita dai nipoti in una casa di riposo e muore senza tornare più a casa sua.
Quando la narratrice eredita la casa, il caso delle lettere scomparse costituisce un ulteriore cold case che resta insoluto, ma che costituisce un ottimo spunto per il romanzo che la donna intende scrivere.
Dopo aver analizzato gli aspetti essenziali dei vari racconti, aggiungiamo qualche nota conclusiva.
Nei racconti sono frequenti i flash-back, spesso inseriti in modo spiazzante e brusco, quasi a dimostrare una “fatica” memoriale e un ambiguo desiderio di ricordare/dimenticare. I ricordi talora diventano ingombranti e preponderanti rispetto alle vicende narrate, rivendicando potentemente un loro spazio vitale. Tali sono, per esempio, l’analessi relativa alla scoperta della “casa degli spiriti”, poi ribattezzata “casa del fico”, nel racconto Il bambino avanzato (cfr. p. 17), o i ricordi sgradevoli della narratrice di “Pandemia” (pp. 125-126).
Non mancano poi le digressioni (come quella, gustosissima, sugli animali madoniti alle pp. 21-23 o quella sui “cunti” di Gratteri alle pp. 148-152). Si ha la sensazione che, ambientando il racconto in un certo contesto e in una certa epoca, si ridestino nell’autrice tali e tante memorie, da non voler “dimenticare” niente, a costo magari di “dis-trarre” provvisoriamente dal tema principale del momento.
Molto puntuali sono i riferimenti alla realtà storica siciliana, ora nel ricordo della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, con la delusione delle speranze di reali cambiamenti per la gente comune (in Il cavaliere di pietra, Rivelazioni e La volontà di Dio), ora nella denunzia della criminalità mafiosa (Il principio di causalità, Valeria, La casa di fronte), ora nella rievocazione del tragico periodo della pandemia (nel racconto omonimo).
Infine, particolarmente precise e dettagliate sono alcune descrizioni, come quella dell’arrivo a Gibilmanna nel primo racconto, Il bambino avanzato (cfr. p. 11).
In tutti questi casi, la scrittura dell’autrice, sempre impeccabile e coinvolgente, tiene avvinto il lettore e, favorita anche dalla formula del racconto, riesce in poche pagine a presentare storie interessanti e vivificate da una palpabile partecipazione emotiva.
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