Altri quattro vocaboli siculo-italiani

Riprendiamo la rassegna di vocaboli ed espressioni del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana. Eccone altri quattro, che in qualche modo si riferiscono tutti all’età infantile.

1) “Stravuliato” – Si dice di una persona che viene “sballottata” di qua e di là, con suo grande fastidio e disagio; in particolare si adatta ai bambini: “Mischino, il picciriddo è stato stravuliato oggi” (magari perché rimpallato fra madre, padre, nonni, cognati, nido e babysitter).

Nel vocabolario di Traina non trovo il verbo “stravuliari”, ma c’è il sostantivo “stràvula”/”stràgula”, che indica “arnese senza ruote che si trascina, ad uso di trasportare checchessia”, un po’ come la “carriola” della novella pirandelliana… Con il caldo, gli “stravuliamenti” sono ancora più pesanti e insostenibili: si ha voglia di avere “risiettu”, di starsene fermi, di riprendere fiato.

2) “Manzo” – Quando ero piccolo, a Bagheria, ricordo che molte persone vedendomi dicevano: “Miiii, che manzo questo picciriddo!”. L’implicito paragone “bovino” ci stava tutto: infatti nel Traina si trova l’aggettivo “manzu”, che propriamente “dicesi degli animali che si lascian trattare”; e per l’appunto definirmi “manzo” in dialetto baarioto significava semplicemente che ero “buono”, che non facevo (quasi mai) capricci, che ero ubbidiente. Ero uno di quei bambini, insomma, che fanno “venire il cuore” (cioè che ti danno soddisfazione), che sono facilmente gestibili, che non sono “vinciùsi” (termine opposto che indica, invece, chi vuole sempre averla vinta).

Al giorno d’oggi, però, un bambino “manzo” è ormai una perla rara, anche perché molti genitori si sentono delusi da un picciriddu troppo calmo e remissivo; da qui la nuova “educazione” (?) che aizza i bambini alla vivacità sempre e dovunque, salvo poi fare i conti (qualche annetto dopo) con la loro appartenenza a qualcuna delle sempre più frequenti e impunite “babygang”.

3) “Rivelare” – “Ma il bambino già l’avete rivelato?”. Questa espressione, che in altre parti d’Italia potrebbe risultare incomprensibile, è invece perfettamente comprensibile in Sicilia: quando nasce un bambino, deve essere “rivelato” in municipio, cioè si deve andare a dichiarare la sua nascita, portando a conoscenza del comune, attraverso le procedure previste, informazioni o documenti necessari per la gestione di pratiche amministrative o legali.  Oggi, con la nascita in clinica, la procedura è semplice; una volta però si nasceva in casa (io stesso sono un prodotto casalingo), il che lasciava ampi spazi discrezionali alla “rivelazione” ufficiale del neonato; infatti, soprattutto se quest’ultimo era maschio ed era nato a fine dicembre, era normale andare a “rivelare” il bimbo ai primi di gennaio, per far sì che il servizio militare scattasse per lui un anno dopo (il che, nella prima metà del secolo scorso, si rivelò utilissimo a moltissimi coscritti…).

Del resto, volendo aggiungere un piccolo corollario, il concetto stesso di “rivelazione” è ben poco siculo: “rivelare” qualcosa cozza contro ostacoli millenari di natura omertosa, contro diffidenze congenite, contro muri di ostinata “privacy”, contro l’opposta tendenza ai “veli” che invece coprono, nascondono e proteggono. E sicuramente in passato molti, andando all’anagrafe a “rivelare” il proprio “picciriddu”, hanno creduto in fondo di subire una sorta di sopruso…

4) “Strùcchioli” – Una delle cose più belle, per i bambini, è avere tanti “strùcchioli” intorno, utili per giocare ma anche per scoprire il mondo. A Genova li chiamano “ravatti”: e si tratta, anche lì, di “gingilli”, oggettini, giocattolini, ninnoli, di scarsa utilità pratica ma a volte irrinunciabili. Gli “strùcchiuli” diventano “strùcciuli” nel vocabolario di Traina, ma indicano comunque “cose di poco momento, trastulli”.

C’è gente (non solo bambini) che ama circondarsi perennemente di “strùcchioli” inutilissimi: la descrizione più divertente di un collezionista maniacale di queste “cose inutili” si trova in un racconto di Andrea Camilleri, “Pezzetti di spago assolutamente inutilizzabili”, che fa parte de “Gli arancini di Montalbano” (ed. Mondadori, 1999).

In questo racconto il commissario Montalbano, durante un’indagine, visita la “cantina immensa” del ragioniere Ettore Ferro. Vi sono collocate più di dieci enormi botti, in cui il padrone di casa conserva maniacalmente ogni cosa: tappi di bottiglie di birra, sacchetti di plastica o di carta già adoperati “divisi per anno” (!), canottiere, giornali, riviste, scarpe, turaccioli, bottiglie, lattine, mozziconi di sigaretta e… persino i suoi rifiuti organici!! In uno scatolone a sinistra, sono conservati “pezzetti di spago assolutamente inutilizzabili” (ma la mancata utilizzazione non è una controindicazione alla loro eterna conservazione).

Di fronte a questa maniacale esibizione di “strùcchioli” di ogni tipo, Montalbano annaspa: “Con uno sforzo, il commissario agguantò la ragione che stava per scapparsene via dalla sua testa; doveva andarsene subito, stava sudando”. Poco dopo, seduto sotto il suo amato “storto olivo saraceno che gli faceva simpatia”, il commissario ragiona sullo strano comportamento del ragioniere: “Perché il ragioniere Ferro faceva quello che faceva? Solo perché il ciriveddro gli funzionava a corrente alternata? O c’erano ragioni più sottili? Voleva essere certo del suo esistere attraverso l’accumulo della munnizza da lui stesso prodotta? Oppure si trattava di una forma d’avarizia assoluta? […] Di una cosa però era certo: quell’omo gli aveva fatto una gran pena”.

Anche qui un piccolo corollario: di fronte al proliferare minaccioso degli “strùcchioli”, qualcuno a un certo punto decide di “fare sbarazzo”. L’espressione non è solo siciliana, ma qui da noi assume particolare rilevanza e diffusione; basti dire che a Palermo esistono addirittura ditte “di Trasporti Sbarazzi e Sgomberi”. Così ad es. una di queste ditte pubblicizza oggi la sua attività: “Eseguiamo sgomberi e sbarazzi a Palermo e provincia, liberandoti degli oggetti che non servono più, nel pieno rispetto dell’ambiente” (ah che città rispettosa dell’ambiente è Palermo! e noi che ci lamentiamo sempre “ammuzzu”…).

L’unica difficoltà è, per gli “sbarazzatori”, vincere le resistenze del ragioniere Ferro di turno, del bambino che non vuole privarsi del giocattolo vecchio e acciaccato, dell’anziano che non riesce a buttare via i suoi ricordi, dei padroni di casa che in fondo preferiscono vivere “annegghiati” in mezzo a “strùcchioli” di ogni epoca geologica piuttosto che rinunciare per sempre a un oggetto che, chissà, un giorno “potrebbe servire”.

Ma forse aveva ragione Orazio, che conclude così amaramente l’ode II 14 a Postumo: “Dovremo lasciare la nostra terra, la casa, / l’amata sposa: degli alberi che coltivi, / nessuno, fuorché l’inviso cipresso, / seguirà te, effimero padrone. / Un più degno erede berrà quei vini cècubi / serbati ora con cento chiavi, / e bagnerà il pavimento di vino superbo, / migliore che nelle cene dei pontefici” (trad. L. Canali).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Tanti gli spunti di riflessione.
    Noi, accumulatori seriali, non ci rendiamo conto della stoltezza del nostro vivere quotidiano basato sulle “cose”.
    Orazio, come sempre maestro inascoltato di umanità.

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