Oggi alle 8,30 sono iniziati gli esami di maturità per 540 mila studenti (poco meno di 50.000 in Sicilia). Come è noto, anche quest’anno gli esami si svolgono con il “rito abbreviato”: un’unica prova orale di un’ora.
Il primo pensiero va a tutte le ragazze e i ragazzi che stanno affrontando le prove, cui va un grande “in bocca al lupo”; nonostante la forzata “riduzione”, questa verifica finale richiede sempre un intenso impegno e induce forti emozioni e nuove sensazioni, prima fra tutte quella di essere di fronte a un “rito di passaggio” che comunque segnerà un profondo iato nella vita degli studenti. Non sarà facile, per loro, dimenticare le condizioni anomale in cui hanno dovuto studiare in questi due ultimi anni scolastici; avere vissuto quasi costantemente in DAD questi anni così importanti e formativi sarà senz’altro motivo di futuro rammarico per questi ragazzi.
Qualche settimana fa l’attuale ed ennesimo inquilino di Viale Trastevere, il ministro dell’Istruzione Bianchi, ha alluso alla prospettiva di un mantenimento dell’attuale formula anche a fine pandemia, respingendo al tempo stesso le obiezioni sull’esame “annacquato”: «Abbiamo predisposto tutto per un esame di maturità che sia tale. [-…] Non è un orale che parte a caso ma parte da un lavoro fatto in un mese, discusso con la scuola. Non solo c’è uno scritto, ma uno scritto pensato, ragionato, discusso. È importante saper scrivere, altrimenti non si sa parlare».
Certo, proclamare l’importanza del “saper scrivere” e al tempo stesso ipotizzare di eliminare anche in futuro le prove scritte dall’esame di stato produce un effetto per lo meno stridente. La contraddizione è accentuata dalla dichiarazione di Matteo Salvini, che ieri sera a “Stasera Italia” su Rete 4, dopo aver ricordato con soddisfazione di aver avuto 48/60 alla maturità (“cioè come avere otto su dieci”), proclamava che dall’anno prossimo torneranno le prove scritte. Evidentemente nel grande e provvisorio minestrone dell’attuale governo cozzano idee diverse in gestazione che, al solito, condurranno a qualche soluzione di compromesso.
Nel frattempo, ieri (in un videoforum con i lettori di “Repubblica”) Bianchi ha ribadito che non si tratta di una “maturità di serie B” e in particolare ha difeso l’elaborato che darà il via al colloquio orale: “non è una tesina, ma un lavoro che, realizzato dagli studenti in un mese, ha fatto uscire scelte complesse e sentite” (evidentemente Bianchi ha ricevuto sul suo tavolo numerosi testi di queste “non-tesine” e le ha scrupolosamente esaminate).
Bianchi inoltre ha sottolineato l’importanza del presidente, unico membro esterno delle commissioni di maturità: “ogni ragazzo ha diritto a essere valutato e non bastano i professori che ha avuto nel triennio, serve un presidente esterno che dia un carattere di solennità alla maturità, una sigla che chiuda un viaggio”. Come se a valutare fosse solo questo burocratico ratificatore esterno e come se tutti i docenti interni fossero lì solo per figura…
Per quanto riguarda lo svolgimento del colloquio “light” (come lo chiama “Repubblica”), dopo l’iniziale discussione della “non-tesina” da parte dei candidati, seguiranno la trattazione di un argomento di Italiano dell’ultimo anno e poi la discussione su un tema scelto dalla commissione; infine i ragazzi riferiranno sulle loro esperienze di alternanza scuola/lavoro (ma non si chiamano più così, ora sono PCTO, “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento”, in nome della continua “ri-lessicalizzazione” dell’usato che sostituisce e millanta ogni concetto di riforma).
Il tutto, ovviamente, nel rispetto delle norme di sicurezza: uso delle mascherine di tipo chirurgico (sconsigliato l’uso prolungato delle FFP2 da parte degli studenti, non si sa perché), distanziamento di almeno due metri tra i candidati e i membri della commissione, autodichiarazione sullo stato di salute, un solo accompagnatore all’interno dell’aula di esame. Chissà poi se all’ingresso delle prove nelle scuole non sarà collocato, come nelle pizzerie o nei supermercati, uno di quei “pistoleri” che controlla la temperatura corporea, fornendo in genere valori fra i 34°5 e i 35°5 (e inducendo fondati sospetti sull’esistenza in vita del controllato).
Una ragazza di Bagheria, che farà l’esame lunedì prossimo, confessa a “Repubblica” che lei e i suoi compagni hanno passato queste sere cantando “Notte prima degli esami“ di Antonello Venditti, fortunatissima canzone del 1984 che ha valicato i confini tra i due secoli e continua – nell’assenza totale di testi altrettanto universalmente validi – a colpire la mente e il cuore dei giovani (e non solo la loro). Credo proprio che (“light” o non “light” sia l’esame attuale), per i maturandi il padre sembrerà ancora Dante e il fratello Ariosto, la matematica non sarà il mestiere di tanti di loro, il mistero dell’amore resterà fitto e la notte sarà ancora loro, una “notte di lacrime e preghiere”; e resterà “la voglia ancora di cambiare”, che dovrà fare i conti poi con una vita che dimostrerà mille volte quanto i cambiamenti siano difficili da attuare (almeno in meglio).
Io iniziai i miei esami di maturità lunedì 3 luglio 1972 al Liceo “Andrea D’Oria” di Genova, classe III A. Avevamo una sola docente interna (la prof. Claudia Nosengo di Matematica) e poi c’erano quattro professori esterni provenienti da varie città (Savona, Parma, Sondrio e Vercelli) e un presidente altrettanto esterno (di Trieste).
Dopo il ’68 l’esame era stato ridotto a due prove scritte (il Tema d’Italiano e, quell’anno, la versione di Greco) e a un’orale su due materie dell’ultimo anno (una scelta dal candidato e una scelta dalla commissione: per me furono Latino e Matematica); era stata archiviata la precedente e terrificante formula che prevedeva al liceo classico tre scritti e orali su tutte le materie. Insomma, ogni epoca ha i suoi esami “light” (anche se il mio “light” di allora, con tutti docenti esterni e un solo “membro interno”, farebbe provare brividi freddi ai ragazzi di oggi).
Il tema ci fu dettato alle 9 (non esisteva ancora la possibilità di disporre di testi in fotocopia). Io scelsi di commentare una frase di Gramsci (tratta da una lettera dal carcere al figlio Delio), che parlava dell’importanza della storia. Inutile dire che di Gramsci non avevamo studiato quasi niente e quello che sapevo di lui derivava dai miei interessi e approfondimenti personali; ma a me piace da sempre la storia, per cui ebbi modo di sottolinearne l’importanza e il fascino (che mi piacerebbe fosse conosciuto anche dalle generazioni attuali).
L’indomani ci fu assegnata una difficilissima versione di greco, un elogio della democrazia ateniese tratto dal “Menesseno” di Platone, in cui (in modo del tutto decontestualizzato e sorprendente) si parlava di “questi morti” (ma quali?). Delle prime parole, Γεννηθέντες δὲ καὶ παιδευθέντες οὕτως οἱ τῶνδε πρόγονοι, non mi sono scordato mai. Eravamo, due classi, nell’immensa palestra interna dell’istituto, in banchi biposto monopostizzati per l’occasione. Dopo un’ora dall’inizio del compito, il mio caro amico Paolo, che era finito molto lontano da me nella disposizione logistica ideata dai commissari (avevano mescolato gli alunni di classi diverse), pronunciò ad alta voce una storica frase che rimbombò in tutta la sala: “Non si capisce un c****”.
Io però riuscii, non so come, a divinare il complicatissimo significato del testo e a completare nelle quattro ore previste la traduzione (riuscii anche a dare qualche consiglio salvifico a Marco Sciaccaluga di III B, seduto dietro di me e destinato a diventare un bravissimo regista teatrale; è purtroppo scomparso pochi mesi fa). Gli orali li ebbi poi (nientemeno!) il 24 luglio. Tutto andò molto bene e mi diplomai con un 60/60 che, come direbbe Salvini, “vuol dire dieci”.
P.S.: Un particolare abbraccio e un “in bocca al lupo” affettuoso va oggi ai miei ex alunni della V D del Liceo Umberto I di Palermo, attualmente impegnati negli esami di stato, non solo per questa importante scadenza ma anche per il loro cammino futuro, che a tutti auguro sereno e ricco di soddisfazioni.