Esempio di tipica “conversazione in Sicilia” (telefonica):
«Pronto, Calogero? Ma dove sei? È un’ora che ti aspetto! Alle cinque ci dovevamo vedere e sono le sei!»
«Ah, Salvatore, tu sei? No, tranquillo, sto arrivando».
Ecco, appunto: “sto arrivando”. Questa è l’immancabile risposta che il ritardatario cronico siciliano pronuncia in occasioni del genere.
In realtà, linguisticamente parlando, tale comunicazione non brilla per chiarezza: questa specie di forma progressiva all’inglese (“I am coming”) si può infatti prolungare nel tempo indefinitamente, può durare quarti d’ora come anche (ma raramente) pochi istanti; l’esperienza insegna dunque che l’unica cosa sicura che si deduce dall’affermazione “sto arrivando” è che la persona è già “partita”.
Un viaggio si divide, in tutto il mondo, in tre fasi: partenza, viaggio e arrivo; tali fasi in genere sono scandite da orari più o meno precisi.
In Sicilia non è così.
Anzitutto, il concetto di “orario” è quanto di più flessibile e magmatico possa esserci. Se devi dare un appuntamento alle 20, dovrai dire: “Ci vediamo otto-otto e mezza”; poi, è ovvio che è solo la scadenza finale ad avere valore “giuridico” (tipo le riunioni condominiali “in seconda convocazione”): si presuppone quindi che ci si debba vedere dalle 20,30 in poi; e ciò consente di aggiungere almeno un’altra mezzora accademica, arrivando così alle 21.
Ciò premesso, va detto che la fase della “partenza” da casa è quanto mai problematica, fra rinvii, divagazioni, chiacchiere e cincischiamenti; quando finalmente “si parte”, la fase 2, quella del viaggio, viene mentalmente azzerata per recuperare il tempo perduto: sicché il siciliano itinerante, appena messo un piede fuori da casa, si sente autorizzato a dire “Sto arrivando”.
In effetti il ragionamento, dal suo punto di vista, è ineccepibile: chi non è più in partenza, deve essere in fase di arrivo. Quanto duri poi questa fase 3 poco importa al viaggiatore; e non deve importare nemmeno alla persona in attesa, che – se darà incomprensibili segni di impazienza – dovrà sentirsi rassicurata a sufficienza da quella dichiarazione consolatoria e ontologicamente ineccepibile: “Sto arrivando”.
Se volete sopravvivere qui in Sicilia, dunque, prendetevela comoda: non guardate mai l’ora e, soprattutto, guardatevi dal credere negli orari.
Lo dimostra il seguente piccolo aneddoto, assolutamente vero. Una volta, in un ufficio della Regione Sicilia, dove un cartello indicava le 9,30 come inizio per il ricevimento del pubblico, alle 10 ancora non si vedeva traccia di impiegati al lavoro. Uno sciagurato intruso (altrove si direbbe “un cittadino”), che era giunto a disturbare l’ozio secolare di quei lidi beati, osò chiedere a un usciere: “Scusi, ma a che ora cominciano? Qui c’è scritto 9,30”. La risposta, biascicata di malumore sollevando gli occhi da un giornale, fu: “Lei non lo deve vedere quello che ci è scritto” (frase che, va riconosciuto, constatava e proclamava una verità assoluta sulla comunicazione scritta in Sicilia).
In definitiva, rispettare gli orari in Sicilia diventa colpa, colpa, gravissima colpa; e di tale colpa io confesso di essermi reso colpevole mille volte. Abituato da sempre ad essere di una puntualità pseudo-elvetica ed anzi tendendo ad anticipare sempre prudenzialmente (per cui se ho appuntamento alle 17 arrivo alle 16,50), ho dovuto trascorrere tempi immemorabili in attese interminabili. Posso valutare approssimativamente che, sommando le ore di attesa, intere giornate della mia esistenza sono passate in questo angoscioso stand-by. E se, preso da impazienza (politicamente scorrettissima), chiamavo ansiosamente il ritardatario per ritrovarne le tracce, giungeva immancabile la sua rassicurazione filosofica: “Sto arrivando”.
Che cosa replicare? Nulla. Così è stato, così è, così sarà; è il principio esistenziale dominante in quest’isola fatalista. Del resto, una volta che la persona attesa arriva, a qualunque orario ciò si verifichi, si sentirà perfettamente dalla parte della ragione: “Visto? Sono arrivato”.
Sean Connery usava dire: “Sono sempre puntuale. Se ritardo è perché sono morto”. Sarà per questo che i siciliani ritardano, facendo doverosamente le corna: meglio ritardatari che morti.