Sinesio nacque a Cirene da nobile famiglia pagana intorno al 370; studiò ad Alessandria alla scuola della filosofa neoplatonica Ipazia (poi uccisa nel 415 da alcuni fanatici cristiani). Nel 399 fu inviato come ambasciatore di Cirene a Costantinopoli presso l’imperatore Arcadio e vi rimase per tre anni, componendo degli scritti neoplatonici. Tornato a Cirene, sposò una donna cristiana e si dedicò alla cura dei suoi beni (difendendoli dalle incursioni dei berberi) e agli studi filosofici.
Nel 410 fu acclamato dal popolo vescovo di Tolemaide; accettò con una certa titubanza, perché non era ancora battezzato ed inoltre era sposato e di fede neoplatonica. Tuttavia si impegnò concretamente nell’attività episcopale, soprattutto in difesa dei poveri. Morì a poco più di quarant’anni, intorno al 413.
Di Sinesio possediamo opere di carattere retorico-morale, ispirate alla Seconda Sofistica; si occupò di molteplici argomenti, unendo l’educazione retorica e quella filosofica. Ebbe un’ottima conoscenza della letteratura classica, oscillando fra opere di carattere disimpegnato (veri e propri παίγνια) ed opere “serie” e fortemente calate nella realtà storico-culturale del suo tempo.
Fra i παίγνια tipici della Seconda Sofistica è particolarmente celebre l’Elogio della calvizie (composto intorno al 396); in questa orazione epidittica l’autore finge di contrapporsi al perduto Elogio della chioma di Dione di Prusa e ne contesta scherzosamente l’elogio dei capelli. La buffa confutazione è basata su un notevole sfoggio di erudizione poetica e di abilità esegetica (soprattutto sui testi omerici) e dialettica, con acuti riferimenti storici e mitologici.
In particolare, nel capitolo 5 dell’opera Sinesio afferma che il calvo non ha motivo di vergognarsi, dato che ha la mente “villosa”; lo stesso Achille si curava poco dei capelli, tanto da sacrificarli all’amico Patroclo defunto. Sono i meno intelligenti fra gli animali ad avere più peli nel corpo ed in testa; e fra gli animali domestici è proprio la villosissima pecora ad essere la più stupida. Capelli e senno quindi non possono coesistere nello stesso corpo. Del resto, anche nel mito dell’auriga Platone descrive il cavallo ingiusto come sordo a causa dei peli delle orecchie.
Ecco il cap. 5 nella traduzione di Antonio Garzya:
«Il mio discorso stabilirà che il calvo ha meno di chiunque motivo di vergognarsi. E perché dovrebbe, se nuda ha la testa, ma villosa la mente, come dell’Eacide canta il poeta? Ma l’eroe non si curava dei capelli, che anzi offrì a un morto, e morta cosa in certo senso son essi, parte non vivente attaccata ai viventi. Così, i più privi d’intelligenza fra gli animali ne hanno rivestito tutto il corpo; l’uomo invece, in quanto partecipe d’una vita più luminosa, è il più sprovvisto di tal connaturato fardello. Peraltro, perché non abbia a menar vanto di non aver nulla in comune con gli esseri privi di anima, ha capelli o peli in poche parti del corpo. Colui, poi, che non ha affatto capelli è rispetto a un altro ciò che l’uomo è rispetto al bruto; e come l’uomo fra tutti gli altri esseri è insieme il più intelligente e il meno peloso, così si è d’accordo che fra gli animali domestici sia la pecora il più stupido, poiché i peli le crescono non distinti l’uno dall’altro, ma a masse compatte. Si direbbe insomma che vi sia guerra fra capelli e senno, non potendo quelli e questo coesistere nello stesso corpo.
Se occorre che portino il loro contributo alla questione anche i cacciatori, uomini a me altrettanto cari della loro arte, si vedrà che i cani più abili son quelli che hanno nude le orecchie e il ventre e che i pelosi sono stupidi e impulsivi, ed è meglio che stiano lontani dalla caccia. E se il saggio Platone, dei due cavalli della pariglia tirata dall’anima, descrive quello ingiusto come «sordo per i peli cresciutigli intorno alle orecchie», come può avere un buon concetto dei capelli? Del resto, anche se non lo dicesse Platone, dovrebbe per forza esser sordo chi sia peloso nell’organo col quale udiamo, così come cieco chi sia in quello col quale vediamo. E sarebbe una mostruosità, se la cosa veramente accadesse. È già accaduto che spuntassero sulla palpebra doppie ciglia e sembra l’estremo dei mali che crescano dei peli vicino all’occhio, anzi si pone ogni cura, anche violenta, contro di essi, perché non giungano a danneggiare l’occhio. La natura non permette che le parti più spregevoli d’un corpo coabitino con le più nobili; e in un essere animato le più nobili sono le facoltà percettive, quelle in cui fra tutte le altre principalmente risiede il principio vitale e alle quali per prime l’anima ha appunto dispensato le sue forze. Ma di tutti gli organi il più divino, e anche il più nudo, è l’occhio.
Inoltre, come di un individuo le parti più nobili son le più calve, così gli elementi migliori della stirpe debbono rapportarsi alla stirpe stessa nel suo complesso. È ciò che poc’anzi si dimostrò a proposito del genere umano tutto, che si trova tanto lontano dai bruti quanto lo é dai peli. Orbene, se è vero che l’uomo è il più sacro di tutti gli animali, fra gli uomini cui toccò la buona sorte di perdere i capelli, il calvo dovrebbe essere la più divina delle cose terrestri».
Come si vede, il tema paradossale è trattato con ironia e con ampie concessioni all’amplificazione retorica. Si tratta di un breve “divertimento” che oscilla tra l’intento consolatorio, ben presto abbandonato, e l’altezzosa rivendicazione di una superiore identità antropologica.
L’autore utilizza (forzandoli nella direzione da lui voluta) alcuni esempi tratti da celebri opere letterarie: i poemi omerici, Senofonte, Platone. Ne deriva, con una sorta di sillogismo, la dimostrazione che tutto ciò che è “peloso” assume connotazioni negative, mentre ciò che è glabro è più nobile e più divino.
Resta il sospetto che Sinesio, affetto egli stesso da precoce calvizie, coltivasse l’irrazionale timore di doversi arrendere, nelle schermaglie amorose, di fronte ad un rivale dalla chioma fluente: “Che colpa ho commessa per dover apparire spiacevole alle donne?” (cap. 1).