Nel capitolo XXIV dei “Promessi sposi” Lucia, conclusa nel modo più imprevedibile la sua disavventura nel castello dell’Innominato, viene condotta in salvo in un paese vicino; qui la ragazza viene ospitata in casa della “buona donna” che era stata inviata a prelevarla insieme a un contrariato don Abbondio (quanto mai scettico sulla reale conversione del terribile bandito).
La buona donna era stata accuratamente scelta dal cardinale Federigo Borromeo: «una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più adattate, a tranquillizzare quella poverina». Ora la brava signora ospita affettuosamente Lucia e le prepara un cappone in brodo per il pasto.
Poco dopo, proprio mentre Lucia viene presa dal doloroso ricordo del voto di castità fatto nella terribile notte precedente, la scena si vivacizza per l’arrivo di nuovi personaggi (se fosse un’opera lirica, ci si aspetterebbe qui una vivace musica festosa che prendesse il posto dei precedenti struggenti accordi di violino): «Tutt’a un tratto, si sente uno scalpiccìo, e un chiasso di voci allegre. Era la famigliola che tornava di chiesa. Due bambinette e un fanciullo entran saltando; si fermano un momento a dare un’occhiata curiosa a Lucia, poi corrono alla mamma, e le s’aggruppano intorno».
Subito dopo, entra il capofamiglia, che viene presentato dall’autore in uno dei suoi brevi, indimenticabili ed efficacissimi ritratti: «Era, se non l’abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e de’ contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto infatti più d’una volta il Leggendario de’ Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza: lode però che rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse andato agli studi, in vece di tant’altri…! Con questo, la miglior pasta del mondo».
Il sarto è dunque un autodidatta: ha letto episodi delle vite dei santi e volgarizzazioni trecentesche di romanzi cavallereschi francesi e ne ha ricavato una cultura approssimativa ma – per i parametri del tempo e per il contesto in cui vive – sufficiente a farlo passare per “uomo di talento e di scienza”.
[Il che dimostra, se ce ne fosse bisogno, che a dare impressione di possedere un’accettabile cultura non occorre molto: sarà per questo che anche nel 2023 proliferano libri scritti da personaggi sulla cui formazione culturale reale sussistono non pochi dubbi…].
Il sarto accoglie benevolmente Lucia; durante il pranzo, poi, riferisce le cerimonie avvenute durante la visita del cardinale Borromeo. Il brav’uomo, commosso per l’esperienza vissuta, mette subito in pratica gli insegnamenti caritatevoli di Federigo inviando una sua “bambinetta” a portare dei viveri a una vedova povera che abita lì vicino (il tutto con la dovuta discrezione: «Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l’elemosina»).
Davvero “la miglior pasta del mondo”, questo sarto, anche se si ha l’impressione che aspetti sempre che qualcuno gli dica: “Quanto sei bravo!”. E tuttavia per lui quella bella giornata ha una svolta inattesa e per certi versi “indimenticabile”.
Il cardinale Borromeo infatti, inaspettatamente, entra nella casa dell’artigiano per far visita a Lucia, che nel frattempo è stata raggiunta da Agnese. Dopo una breve conversazione con le due donne, Federigo si rivolge ai padroni di casa per ringraziarli e per chiedere loro «se sarebbero stati contenti di ricoverare, per que’ pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro mandate».
La buona donna risponde senza indugio affermativamente («Oh! Sì signore»); ma per il sarto è diverso: ad un “uomo di cultura” come lui, che ha la fortuna di trovarsi in casa (nientemeno!) il cardinale, una risposta più adeguata s’impone.
Ma le cose vanno diversamente: «Il marito, messo in orgasmo dalla presenza d’un tale interrogatore, dal desiderio di farsi onore in un’occasione di tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l’arco dell’intelletto, cercò, frugò, sentì di dentro un cozzo d’idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva; il cardinale accennava già d’avere interpretato il silenzio: il pover’uomo aprì la bocca, e disse: “si figuri!”. Altro non gli volle venire. Cosa, di cui non solo rimase avvilito sul momento; ma sempre poi quella rimembranza importuna gli guastava la compiacenza del grand’onore ricevuto. E quante volte, tornandoci sopra, e rimettendosi col pensiero in quella circostanza, gli venivano in mente, quasi per dispetto, parole che tutte sarebbero state meglio di quell’insulso “si figuri!”. Ma, come dice un antico proverbio, del senno di poi ne son piene le fosse».
La scena, divertentissimo esempio della straordinaria ironia manzoniana, fa riflettere.
In molte occasioni importanti vorremmo fare bella figura, dare il meglio di noi stessi, dimostrare a tutti il nostro valore; ma a questo punto l’ansia da prestazione ci penalizza, ci annebbia le idee, ci rende poco lucidi.
Il misero “si figuri”, partorito dal sarto dopo un travaglio creativo intellettuale e fisico al tempo stesso, è un esempio di “flop” comunicativo tanto più doloroso per una persona che si sentiva degna, per la sua (presunta) cultura, di poter parlare alla pari con i “signori”. Ma, cosa ancora più spiacevole, il ricordo delle parole insulse rivolte al cardinale ritorna poi (c’è da credere per tutta la vita) nella memoria del brav’uomo, che tantissime volte immagina invano di poter rivivere quel momento e di poterlo modificare e migliorare. Inutile, perché il “senno di poi” non serve a nulla.
Il sarto ricomparirà nel cap. XXIX, quando don Abbondio, Perpetua e Agnese saranno in fuga dal loro paese per sfuggire ai lanzichenecchi e rifugiarsi nel castello dell’innominato; durante il tragitto andranno a salutare il sarto e la sua famiglia (in questa occasione a Manzoni sfugge una piccola svista: i figli del sarto diventano due ragazzi e una bambina, mentre prima erano “due bambinette e un fanciullo”; a meno che don Lisander, notoriamente profetico per tanti aspetti, avesse anche preconizzato situazioni transgender…).
Anche in questa occasione il sarto farà sfoggio di cultura, stavolta ad uso e consumo di don Abbondio, arrivando a paragonare la calata dei lanzichenecchi alla “storia de’ mori in Francia”, con riferimento ai poemi cavallereschi che ama leggere. In questo caso il brav’uomo “ostenta quel linguaggio ricercato e affettato che, con sua enorme stizza, non era riuscito a sfoggiare in presenza del cardinale” (Luperini). Il sarto inoltre offrirà a don Abbondio dei libri in volgare da leggere durante il soggiorno al castello, vedendoseli però rifiutare dal curato, che – lo sappiamo – doveva avere molti Carneadi nella sua formazione culturale.
L’ultima apparizione del sarto sarà nel cap. XXX, quando, passati i lanzichenecchi, i tre visitatori torneranno in casa sua: e anche qui il commento dell’uomo sarà improntato al suo chiodo fisso: «Ah signor curato! S’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte”.
Nel complesso il sarto, benché sia indubbiamente un personaggio minore, appare perfettamente delineato da Manzoni nei suoi pregi e nei suoi difetti: generoso, ospitale, altruista, onesto, ma al tempo stesso inguaribilmente goffo e narcisista. E non sarà un caso che questo personaggio sia lasciato volutamente anonimo dall’autore, forse per accrescerne la valenza “esemplare”, paradigmatica: il sarto è come noi, è uno qualunque di noi.
In definitiva, un altro dato che rende a mio parere “I Promessi Sposi” un capolavoro assoluto (penalizzato semmai da troppe letture scolastiche mal fatte) è la capacità di utilizzare la stessa profondità di analisi e lo stesso meraviglioso realismo nella creazione di ogni personaggio, cogliendo sempre l’occasione di ricavare, dalle minuziose descrizioni psicologiche, interessanti spunti di riflessione.
POST SCRIPTUM – Il detto “Del senno di poi (ne) son piene le fosse” si trova attestato già nella seconda metà del Cinquecento in alcuni scrittori toscani (Agnolo Firenzuola, Anton Francesco Grazzini, Giovanni Maria Cecchi, Ludovico Guicciardini) e rientra nell’immenso repertorio di proverbi che il fiorentino Francesco Serdonati compilò alla fine di quel secolo. Ma è indubbio merito del Manzoni averlo reso universalmente noto e avere, soprattutto, esemplificato ottimamente il concetto per cui è del tutto inutile ragionare “a posteriori” o, come direbbe un altro proverbio, “piangere sul latte versato”.
Un’ulteriore precisazione: a quali “fosse” si riferisce il motto? Se una “fossa” è uno scavo praticato nel terreno, di misure e grandezze diverse secondo l’uso cui è destinato, e se prevalentemente l’immagine della fossa si collega alla morte (cfr. “scavarsi la fossa”, “avere un piede nella fossa”, ecc.), l’immagine serve a evidenziare l’inutilità di ogni giudizio fatto a posteriori, “post mortem” e quando ormai non è possibile rivivere l’attimo perduto e modificarlo.
Per concludere: quante volte ci siamo lagnati del “senno di poi” di certi nostri politici e amministratori? Quante volte abbiamo dovuto lamentarne i provvedimenti tardivi, le opinioni prima contestate e poi accettate, i clamorosi ripensamenti (o voltafaccia) – peraltro spudoratamente smentiti – nelle decisioni precedentemente adottate? E, di contro, quante persone con funzioni pubbliche riescono invece ad avere “senno” al momento opportuno e a trovare in tempo reale la soluzione migliore ai problemi, mantenendosi poi coerenti con se stessi e con gli altri?
Statistiche interessanti, che pochi fanno, purtroppo; ma nel complesso si ha l’impressione che il sarto manzoniano sia, anche oggi, in ottima e ricca compagnia.
Con la differenza, non da poco, che lui almeno era simpatico.