Il poeta Antipatro nacque a Sidone intorno al 170 a.C., ma visse a Roma, dove frequentò il circolo di Lutazio Catulo (il poeta preneoterico che fu console nel 102); morì intorno al 100 a.C. L’Antologia Palatina tramanda un’ottantina di suoi epigrammi, alcuni dei quali però sono spuri (probabilmente opera di un omonimo Antipatro originario di Tessalonica).
I componimenti di Antipatro di Sidone si distinguono per raffinatezza ed erudizione fino a sfiorare il puro gioco letterario; lo dimostra ad es. la scelta di uno stesso tema proposto in più varianti: alla vacca di Mirone, ammirata per la sua perfetta verosimiglianza, Antipatro dedica ben cinque epigrammi (A. P. IX 720-724).
Antipatro si rifà alla tradizione epigammistica precedente, soprattutto a Leonida di Taranto, di cui riprende alcuni motivi (descrizione di strumenti di lavoro, della primavera, di monumenti). Dimostra però particolare predilezione per gli epigrammi sepolcrali, di cui un esempio sui generis, in quanto dedicato ad una intera città, è quello che commemora la distruzione di Corinto, avvenuta nell’anno 146 a.C. ad opera dei Romani comandati dal console Lucio Mummio.
Il componimento (A.P. IX 151) è diviso in tre microsequenze:
1) con l’espediente retorico dell’ubi sunt? ci si chiede dove sia l’antica bellezza di Corinto (vv. 1-4);
2) viene poi data la desolante risposta (“Nemmeno un segno rimane di te, / infelicissima! Divorò tutto / a rapina la guerra”, vv. 5-6);
3) le Nereidi, che avevano posto le domande iniziali, proclamano di essere ormai le uniche a gemere per la triste sorte della città (vv. 7-8).
Tutto l’epigramma è pervaso da un forte senso d’angoscia, che è espresso sia dal ritmo incalzante delle interrogative, accentuato dal legame per asindeto e dall’ellissi del predicato, sia dall’immagine delle Nereidi, le uniche (μοῦναι) a non aver subito devastazioni (ἀπόρθητοι, letteralmente “non saccheggiate”, v. 7).
Come scrive Gennaro Perrotta, nel componimento “è innegabile un senso sincero di malinconia davanti a uno splendore distrutto, a una grandezza sparita, che le alcioni sembrano piangere nell’alto silenzio del lido deserto. Comincia con Antipatro, e avrà sviluppo più tardi, il fascino delle rovine, la poesia delle città morte”.
La cosiddetta “poesia delle rovine” fu in effetti destinata a notevole fortuna letteraria: nelle desolanti celebrazioni dei poeti dai resti delle città antiche emerge, come qui, non tanto il loro valore storico, quanto il fascino melanconico del tempo che passa e distrugge ogni cosa. A questa tipologia letteraria (in qualche modo “preromantica”) si ricollegherà ad es. il poeta latino Properzio, nel IV libro delle sue Elegie.
Ecco il testo originale dell’epigramma, seguito dalla traduzione di Salvatore Quasimodo:
Ποῦ τὸ περίβλεπτον κάλλος σέο, Δωρὶ Κόρινθε;
Ποῦ στεφάναι πύργων, ποῦ τὰ πάλαι κτέανα,
ποῦ νηοὶ μακάρων, ποῦ δώματα, ποῦ δὲ δάμαρτες
Σισύφιαι, λαῶν θ’ αἱ ποτε μυριάδες;
Οὐδὲ γὰρ οὐδ’ ἴχνος, πολυκάμμορε, σεῖο λέλειπται,
πάντα δὲ συμμάρψας ἐξέφαγεν πόλεμος.
Μοῦναι ἀπόρθητοι Νηρηΐδες, Ὠκεανοῖο
κοῦραι, σῶν ἀχέων μίμνομεν ἁλκυόνες.
Dov’è la tua mirabile bellezza,
o dorica Corinto? E le corone
delle tue torri e le antiche ricchezze,
i templi degli dèi, i tuoi palazzi? Dove le tue donne,
dove le folle immense del tuo popolo?
Nemmeno un segno rimane di te,
infelicissima! Divorò tutto
a rapina la guerra. Solo noi
Nereidi, figlie di Oceano, immortali,
come alcioni, siamo rimaste a piangere
le tue sventure.