Ieri pomeriggio anche il secondo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica si è concluso con un nulla di fatto.
Le schede bianche sono state 525 (nel primo scrutinio erano state 672, il che segnala un latente nervosismo e – forse – un primo allenamento di molti potenziali “franchi tiratori”). Il più votato è stato Paolo Maddalena (ex magistrato e vice presidente emerito della Corte Costituzionale, su cui sono confluite le preferenze dei parlamentari ex pentastellati) con 40 voti, seguito dal presidente uscente (se uscirà) Mattarella con 39 voti.
A seguire, una fiumana di voti dispersi che rispecchiavano la creatività o la superficialità dei parlamentari della Repubblica.
In proposito, stavolta non ha tutti i torti Selvaggia Lucarelli quando scrive: «Ogni volta che sento un nome cretino (Amadeus, Signorini, Zoff…) scritto sulle schede per l’elezione del presidente della Repubblica lacrimo sangue. Mi viene in mente quando facevamo un gioco alle feste delle elementari: mettevamo dei bigliettini anonimi col nome di chi ci piaceva in un cesto e poi li aprivamo, leggendoli ad alta voce. Qualcuno scriveva “unicorno” o “Minnie”. Ecco. Solo che avevamo 7 anni».
Nel frattempo, nel nostro Paese altri numeri vengono impietosamente proposti alla cronaca quotidiana: ieri ci sono stati 186.740 nuovi contagi e 468 morti per coronavirus, il numero delle vittime è salito a 144.343 da inizio pandemia. Continua la fiumana di tamponi (1.397.245 tra antigenici e molecolari), mentre il tasso di positività si attesta al 13,4%.
E mentre la gente muore negli ospedali (e non solo di covid, perché il sistema sta collassando e anche la cura delle altre patologie viene enormemente penalizzata dalla situazione sanitaria), il mondo politico offre uno scenario desolante di divisione, lacerazione, stallo, paralisi.
Dopo mesi e mesi in cui si sarebbe potuto e dovuto trovare un accordo (se non altro fra gli ingredienti del minestrone che compone l’attuale governo) per eleggere al primo scrutinio il nuovo Capo dello Stato, ci ritroviamo oggi con un nulla di fatto che è frutto di veti incrociati, di pregiudizi (da tutte le parti), di diktat più o meno velleitari, di contrattazioni surreali sul futuro governo.
Perché, diciamolo chiaro, poco importa in Italia il presidente della Repubblica, figura tanto esaltata e beatificata quanto – in sostanza – pari al due di briscola. Conta invece chi è il premier, qual è la sua maggioranza, quali ministeri può garantire, fino a quando può consentire il mantenimento dello “status quo” in un anno pre-elettorale, quanto riesca a gestire il “piano nazionale di ripresa e resilienza” (e davvero di “resilienza” si devono armare gli Italiani…).
Oggi la situazione è caotica.
Da un lato c’è un presidente del consiglio che non cela il suo desiderio di andare al Quirinale (se non altro per sottrarsi al ruolo ben più precario che ricopre a Palazzo Chigi), ma non trova i voti e i consensi che sperava; insomma, “un nonno al servizio delle istituzioni” (come si è definito lui stesso), che però nella sua mente ha sicuramente scelto l’istituzione più duratura e rassicurante.
Dall’altro lato c’è un presidente uscente che è stato “tirato per la giacchetta” in tutti i modi, ma ha (finora) negato la possibilità di una sua rielezione (salvo a organizzare l’altro ieri uno strano trasloco della sua abitazione da Palermo a Roma, proprio nel momento in cui sarebbe stato logico il contrario).
In mezzo, una fiumana di candidati variamente definiti “di parte” (dagli avversari politici) o “di alto profilo istituzionale” (dai loro sostenitori), in una reciproca paralisi di iniziative.
E in questo marasma, i principali leader politici che dicono?
Matteo Renzi è ottimista (beato lui) e rassicura la gente: «Agli italiani dico: è complicato ma giovedì o venerdì avrete un Presidente, non vi preoccupate se ora c’è una girandola di nomi; siamo ancora in alto mare, ma è normale». Per lui è normale navigare in acque agitate, magari agitandole lui.
Enrico Letta, invece, è più drammatico: «Dobbiamo rinchiuderci in una stanza a pane e acqua finché non si trova una soluzione, il Paese non può aspettare di più». E verrebbe voglia di prenderlo in parola.
Matteo Salvini, che si ritrova a improvvisarsi “kingmaker” (magari con qualche suggeritore), cita dati storici: «Nella storia del presidente della Repubblica ci sono state elezioni risicate al 53% come con Napolitano ed elezioni che hanno sfiorato l’80% e quindi un conto è il governo, un conto l’elezione del presidente della Repubblica». Ma l’unica cosa che gli sta a cuore in questo momento è un “governo dei leader” che gli consenta un ritorno al Viminale (magari per ricominciare a prendersela con quei poveri disgraziati dei migranti) e il congelamento della situazione attuale, evitando le elezioni anticipate (a scanso di un “sorpasso” ad opera della Meloni).
Silvio Berlusconi, dopo il suo “nobile” rifiuto di candidarsi al Quirinale, si illude di poter suggerire nomi da dietro le quinte (dove però sembra destinato ormai a restare).
Quanto al Movimento degli Zainetti, primo partito italiano alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 con il 32% dei consensi (e che ora annaspa fra transfughi, leader separati in casa, deputati e senatori disperatamente attaccati a una poltrona che loro stessi hanno reso più precaria con la prevista riduzione dei parlamentari), sicuramente ha perso gran parte della sua carica ideologica iniziale, confusionaria e velleitaria, ma che aveva almeno il merito di voler abolire certi rituali politici, rituali che risultano invece ora confermati e anzi – se possibile – peggiorati rispetto al passato.
In questo quadro avvilente, esistono intanto parlamentari eletti dal popolo italiano che votano per Zoff come presidente della repubblica.
Sarebbe bello che si facesse chiarezza.
Ad esempio, sarebbe bello che il presidente Mattarella, vincendo la sua abituale ritrosia e dimenticando il suo proverbiale aplomb, dicesse chiaro e tondo che no, non vuole e non intende essere rieletto, come ha già detto e ripetuto tante volte.
E sarebbe bello che Mario Draghi dicesse che no, non vuole andare al Quirinale (magari piazzando al suo posto Elisabetta Belloni, capo del DIS, Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, in altre parole una specie di M, capufficio di James Bond); e dicesse invece che intende tesaurizzare il carismatico consenso che gli viene dall’Europa e dal mondo, senza andarsi a mummificare fra i corazzieri del Quirinale.
Fatta così chiarezza, eliminati dalla lizza Mattarella e Draghi, che lo trovino pure il nuovo presidente, dall’“alto profilo istituzionale”, moralmente ineccepibile (e francamente molti degli attuali “papabili” non sembrano inattaccabili) e “al di sopra delle parti” (dato che si presuppone che al Quirinale vadano solo automi privi di idee politiche personali e incaricati solo di elargire benedizioni pastorali “super partes”).
Ma facciano in fretta.
Siamo stufi delle schede bianche e non vogliamo Zoff o Amadeus al Quirinale.
Che si salvi, prima di tutto, la dignità del Paese.