Il cretese Nikos Kazantzakis è uno degli scrittori neogreci più noti in tutto il mondo; autore di celebri romanzi (soprattutto Zorba il greco ed il discusso L’ultima tentazione di Cristo), costituisce una delle personalità più importanti della cultura del XX secolo.
Zorba il greco (1946) si ispira ad un personaggio reale, un tale Yorgos Zorbas, conosciuto dall’autore nel 1914 sul Monte Athos. Il narratore è un giovane intellettuale (proiezione dell’autore stesso), che torna nella natia Creta, dopo avervi affittato una miniera di lignite che vuole provare a sfruttare; per realizzare l’impresa, assolda il settantenne Alexis Zorba, un greco originario della Macedonia, con l’incarico di guidare la squadra di operai addetti alla miniera.
Zorba è un personaggio esuberante e passionale, avventuriero, musicista (sa suonare il “santuri”), filosofo a modo suo, donnaiolo, profondamente sensuale, gran bevitore e mangiatore; la sua vitalità (in una sorta di progressiva iniziazione alla vita) finisce per guarire il giovane protagonista dalla sua accidia e dalla paralizzante neghittosità del suo impegno intellettuale.
Zorba è una creatura “primordiale”, legata alla natura, priva di “sovrastrutture” intellettuali ma proprio per questo caratterizzata da una profondità e da una “sapienza” straordinarie. Così lo descrive il narratore: «Quest’uomo non era andato a scuola, pensavo, e il suo cervello non ha subito influenze corruttrici: ha avuto ogni sorta di esperienze, possiede una mentalità aperta. […] Tutti i problemi che a noi sembrano insolubili Zorba li risolve con un taglio netto, quasi usando la spada, come fece Alessandro il Grande quando spezzò il nodo gordiano. È difficile che fallisca lo scopo, perché ha ambedue i piedi ancorati solidamente alla terra dal peso di tutto il suo corpo… Noialtri, uomini istruiti, siamo soltanto uccelli dell’aria e abbiamo il cervello vuoto».
Il fascino di Zorba è indiscutibile: «Nell’ascoltare Zorba avevo provato l’impressione che il mondo stesse ricuperando la primitiva freschezza. Tutte le cose rese insipide dalla consuetudine quotidiana riguadagnavano lo splendore che avevano avuto al principio, quando erano uscite dalle mani dell’Onnipotente».
Particolarmente liberatoria è per Zorba la danza, che gli consente di esprimere con i movimenti del corpo ciò che non sa o non può esprimere con le parole.
Ecco come viene descritta la sua danza alla fine del romanzo: «Con un balzo uscì correndo dalla baracca, si tolse scarpe, giacca e panciotto, si arrotolò i pantaloni sopra le ginocchia e cominciò a danzare. Gli splendeva persino il bianco degli occhi! Sembrava fosse fatto di gomma: battendo le mani, piroettando sospeso in alto, ricadendo al suolo, rimbalzando sulle ginocchia ripiegate, Zorba sfidava la legge di gravità, come se avesse voluto violare i limiti imposti da Madre Natura e librarsi a volo nell’aria. Si capiva che dentro quel suo vecchio corpo era rinchiusa un’anima impegnata in accanita lotta contro la materia, per slanciarsi al pari di una meteora nelle tenebre dell’infinito. Era lo spirito che scuoteva convulsamente il corpo incapace di restare a lungo sospeso nel vuoto e lo spingeva a spiccare sempre nuovi salti, sempre più in alto, senza pietà della sfinitezza e del suo respiro ansimante».
Al momento del commiato finale, Zorba invita espressamente il padrone alla “follia”: «Occorre un granello di follia, capisci? Dovresti arrischiare tutto; ma la tua testa è troppo solida: riuscirà sempre ad avere la meglio su di te. […] Che ti manca? Sei giovane, sei buono, hai danaro e salute: non ti manca nulla. Nulla, perbacco! Tranne una cosa, la follia! Ma quando manca la follia, padrone…».
Come scrive Bruno Lavagnini, «nello sfondo idilliaco del paesaggio di Creta, ci son mostrati in azione, l’uno accanto all’altro, come Sancho Panza e Don Chisciotte, l’uomo del popolo e l’intellettuale, che è una maschera dell’autore. Lo Zorba è un uomo semplice, dal carattere tipicamente greco, che ha il dono di vedere con occhi sempre nuovi e freschi le cose di ogni giorno e di agire con naturale saggezza e spontaneità. Ispirandosi al suo esempio, ‘l’uomo di penna’ avrebbe potuto forse rinnovarsi e salvarsi. Lo scrittore sente però che è ormai troppo tardi e resta fedele al suo compito che è non di “vivere” ma di rappresentare la vita, di trasformarla in letteratura».
Fra i personaggi minori del romanzo vanno ricordati: Madame Hortense detta “Bubulina” (un’anziana cabarettista francese approdata a Creta, ora tenutaria di un misero albergo e descritta nel suo impietoso decadimento fisico), Stavridaki (l’amico cui scrive il narratore) e la bella vedova Sourmelina (con cui il protagonista finisce per avere una relazione, ma che muore sgozzata per la sua presunta impudicizia).
L’ambientazione a Creta è ricca di fascino, soprattutto per la descrizione dello scorrere del tempo in una dimensione “ciclica”, con l’alternarsi delle stagioni e il ripetersi delle tradizioni (qualcosa di analogo, per certi versi, ai “Malavoglia” verghiani).
Fortemente presente è, nel romanzo, il tema esistenziale; vedendo passare uno stormo di gru che tornano dai paesi caldi ove avevano svernato, il narratore riflette così: «Ancora una volta, nel considerare l’ineffabile ritmo delle stagioni, l’eterno giro della ruota della vita, le quattro parti della terra che a turno ricevono la luce del sole, il trascorrere veloce e inarrestabile della nostra esistenza, fui colto da un senso di angoscia. Ancora una volta, insieme con il grido delle gru, risuonò dentro di me il terribile avvertimento che ciascun uomo vive una vita soltanto e nessun’altra, e che ogni possibile gioia deve essere goduta quaggiù. Nell’eternità non potremo mai più ritornare vivi».
Dal romanzo è stato tratto nel 1964 un film, per la regia di Michael Cacoyannis. La parte del protagonista fu affidata al celebre attore americano Anthony Quinn, che fornì qui una delle sue migliori interpretazioni. Fra gli altri attori erano Alan Bates nella parte del giovane protagonista (qui diventato uno scrittore inglese di nome John) e la grande attrice greca Irene Papas nel ruolo della vedova.
La colonna sonora, composta da Mikis Theodorakis, comprendeva un “sirtàki”, che accompagnava la danza di Zorba, destinato a diventare un brano famosissimo in tutto il mondo. Il film fu girato a Creta; in particolare, la scena della danza di Zorba fu girata sulla spiaggia di Stavros.
Il grande successo del film fu coronato dall’assegnazione di due Premi Oscar (a Lila Kedrova nel ruolo di “Bubulina” come migliore attrice non protagonista ed alla fotografia di Walter Lassally) e da quattro nomination.
E tuttavia parte della critica rilevò diversi difetti nel film; esso appare “statico e troppo lungo” (ben due ore e mezza) al Mereghetti, che definisce “spropositato” il suo successo, dato che a suo parere “Cacoyannis non fece che sfruttare in modo superficiale il folclore locale, che agli americani doveva sembrare molto esotico”.
PS: Una curiosità conclusiva sul sirtàki (συρτάκι); non si tratta di una danza tradizionale e popolare, ma è stata creata appositamente da Theodorakis per il film; egli si ispirò alla danza greca chiamata hasàpikos (χασάπικος), un’antica danza bizantina detta “dei macellai”, composta da una serie di passi di base e da alcune figure introdotte dal capofila durante l’esecuzione. I danzatori allargano le braccia, appoggiandole l’uno sulla spalla dell’altro, in un ritmo di graduale accelerazione.
Nel sirtaki (lett. “piccolo syrtos”) si ritrova nelle parti più lente il syrtos (nome con cui si indicano alcuni balli popolari con ritmo in 4/4, eseguiti durante feste e matrimoni), mentre negli elementi più rapidi si passa al pidiktos, un ballo che si basa essenzialmente sui salti. Il ritmo aumenta progressivamente, fino a diventare parossisticamente veloce.
Dopo aver visto il film di Cacoyannis, migliaia di turisti vennero a Creta, attratti dalla fama di quel travolgente ballo; come si è detto, però, la danza ritenuta tradizionale non esisteva e solo in seguito i ballerini, a grande richiesta, iniziarono ad eseguirla.
Il sirtaki fece così il giro del mondo, diventando emblema del popolo greco e del suo desiderio di libertà (soprattutto nei cupi anni della dittatura dei colonnelli).