In Sicilia la “abbanniata” (o “abbanniatina”, con uno dei frequenti diminutivi locali) è il grido con cui i venditori tentano di attirare i loro clienti, sia nei mercati storici (a Palermo, ad es., a Ballarò, al Capo e – un tempo – alla Vuccirìa) sia in mezzo alle strade in qualità di venditori ambulanti.
Si discute sull’origine del termine “abbanniari”, ma la più logica derivazione è dal gotico bandwo, cioè “segno, segnale” (cfr. lat. medievale bandum e bannum), nel senso di “bando, annuncio pubblico”, che era in genere delegato ad appositi “banditori” incaricati dalle autorità (in mancanza di ogni “mass-media”) di diffondere notizie presso le comunità. Ancora nell’ultimo dopoguerra in molti paesi siciliani esisteva il “tammurinaru” che – percuotendo a raffica un tamburo – girava per le strade annunciando notizie e novità alla gente.Chissà se Bob Dylan ne aveva mai sentito uno… (“Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me / In the jingle jangle morning I’ll come followin’ you”).
Meno probabile è un’altra etimologia, che vorrebbe collegare il verbo “abbanniari” alla parola “banna”, che in siciliano significa “parte” intesa come luogo (es: “veni a ‘sta banna” = “vieni da questa parte”); “abbanniari” dunque significherebbe “mandare la voce da tutte le parti”. Del tutto fantasioso è per me il legame con il verbo greco “bàino” (βαίνω, cioè “camminare”).
Un tempo esisteva una vera e propria “arte” di “abbanniàri”. Con molta più creatività rispetto a certi banali spot odierni, i negozianti (pescivendoli, macellai, fruttivendoli, fornai, ecc.) intonavano veri e propri cantici popolari, con esotiche melodie caratterizzate da particolari inflessioni sonore (spesso di diretta derivazione araba, ad es. con uso di intervalli di quarti di tono, cioè – per i non addetti ai lavori – intonando note intermedie fra il tasto bianco e il tasto nero del pianoforte).
Il grido propagandistico era accompagnato da espressioni colorite che esprimevano ammirazione e meraviglia per le merci decantate, precisandone la qualità e il prezzo vantaggioso.
Ancora oggi, girando per i mercati palermitani, è facile udire le colorite “abbanniatine” dei venditori; devo dire però che la chiarezza dell’eloquio è spesso problematica persino per noi locali (figurarsi per turisti provenienti ormai da ogni parte del mondo).
In città, inoltre, continua a circolare per le strade il venditore ambulante di “sfincione” rosso palermitano sulla sua “lapa” (cioè la moto Ape); ormai purtroppo la sua leggendaria “abbanniatina” è affidata a una registrazione: “Chistu è sfinciuni fattu ra bella vieru! Chi sciàvuru!!!” (“Questo è sfincione fatto a regola d’arte! Che profumo!”); ma i clienti non mancano ugualmente, vista la bontà del prodotto venduto.
Io ricordo però altre “abbanniatine”, quelle che udivo tanti anni fa per le strade di Bagheria durante i due mesi estivi che passavo in paese.
In proposito, possiedo un documento sonoro sicuramente di grande interesse, che ho caricato su YouTube in forma di breve video (https://youtu.be/BOzcA_uYeeM), corredato da immagini d’epoca, bagheresi e non; l’audio risale al 1960 e fu realizzato da mio padre con il suo registratore Geloso.
Vi si odono alcune caratteristiche “abbanniatine”: un venditore di “rapparini” (susine piccole) e melanzane, un fruttivendolo che – passando con il carretto – decanta le sue “pira cosci” (la “pera coscia” è una variante locale di pera, tipicamente estiva, che richiama nel nome la forma delle cosce femminili) e le “pérsichi belli” (cioè le buone pesche: ma qui non si dice che una cosa è “buona”, si dice che è “bella”). Si sente qualcuno che chiede il prezzo; la risposta è “unu e sittanta” (che, riferito alle tariffe dell’epoca, dovrebbe essere inteso come “170 lire”).
Si prosegue con un’altra orecchiabilissima “abbanniatina” da parte di un ragazzotto: “be-ellu è pi sassa u pumaruoru” (con elogio della bontà del pomodoro per salsa).
Un macellaio poi “abbannìa” il castrato (“u crastagnieddu a quattru liri”, cioè a 4000 lire), ma anche “’a pitturina” (cioè la pancetta del “crastagnieddu” che si cuoce con salsa, zucchina lunga e patate). Segue un invito (“Vatti a manciari i bruciuluna ca sassa”, cioè “vai a mangiare il falsomagro con la salsa”). Il finale, non molto chiaro, sembra presentare l’“abbanniatina” di un pescivendolo che invita a comprare le sue sarde.
Mimmo Sciortino, fonte preziosa e inesauribile di ricordi e informazioni, mi comunica ulteriori notizie su altri venditori ambulanti bagheresi: giravano per Bagheria con una tavoloccia poggiata sul petto e tenuta con una cinghia sul collo, piena di oggettini di valore irrisorio: aghi, spille, pettini (“pettini stritti e pettini pi piruocchi”, questi ultimi addetti a individuare ed eliminare i pidocchi), elastici, calze, bottoni, ecc.
Vorrei ricordare infine un personaggio che negli anni ’60 ogni pomeriggio a Bagheria attraversava il corso Umberto: era uno strillone, di età indefinibile ma probabilmente neanche quarantenne, che deambulava molto male per la poliomielite e a gran voce invitava a comprare il giornale del pomeriggio, “L’ora”.
Questo personaggio aveva un’astutissima strategia: infatti anzitutto gridava “L’ora il giornal!”, poi aggiungeva (come in un moderno TG) i titoli principali, confusissimi e pressoché incomprensibili; infine aggiungeva l’immancabile finale “a Baarìa” (= a Bagheria). Il riferimento nazionalista al proprio paese scattava come ineludibile invito, per i passanti, ad acquistare il giornale (“’nsa chi successi a Baarìa”, “chissà che è successo a Bagheria”). Il venditore, soddisfatto, vendeva le copie e (mentre gli acquirenti iniziavano a sfogliarle cercando invano i riferimenti al proprio paese) riprendeva a caracollare urlando ringalluzzito: “L’ora il giornal!”.