Asclepiade, nato a Samo intorno al 320 a.C. e vissuto ad Alessandria d’Egitto, fu uno dei poeti più apprezzati del suo tempo: scrisse giambi e componimenti lirici (da lui prendono il nome due schemi metrici, l’asclepiadeo maggiore e l’asclepiadeo minore, utilizzati in seguito da Orazio).
Particolarmente belli sono i suoi epigrammi (circa una trentina): la maggior parte di essi è dedicata all’amore, visto nelle sue diverse sfaccettature: la passione, l’entusiasmo, lo scoramento, la gelosia, la noia.
Protagoniste sono spesso donne (sicuramente etère, cioè “donne di compagnia”), la cui bellezza suscita la passione del poeta; tuttavia l’esperienza amorosa si risolve nello spazio momentaneo dell’“hic et nunc”, dove l’unica scelta possibile è godere l’attimo.
Inoltre, in questo mondo di giovani amanti, penetra l’ombra della malinconia, come attesta il celebre epigramma in cui, ancora ventenne, il poeta confida il suo male di vivere: «Ahimè, non ho ancora ventidue anni / e già sono stanco di vivere! O Amori, / che cos’è questo tormento? Perché / mi bruciate? E se la morte mi colpisce, / Amori, che farete? Già! Come prima, / giocherete scherzando con i dadi» (A. P. XII 46, trad. Quasimodo).
Nel complesso, come sintetizzava Gennaro Perrotta, “qualunque cosa abbia nell’animo, questo poeta sa esprimerla nella sua forma più semplice e immediata. Nei suoi epigrammi non c’è erudizione, non ci sono ornamenti, meno che mai arguzie o giochi verbali; ma tutta l’arte sembra consistere in una meravigliosa chiarezza”.
Come esempio di questa limpida immediatezza, propongo qui due epigrammi che affrontano il tema della sofferenza in amore.
1) Nel primo, una notte tempestosa fa da sfondo al tormento di un innamorato, che – fradicio di pioggia – aspetta davanti alla porta della donna amata. Ma costei è “ingannatrice” (“dolìēs”, δολίης, v. 3; Quasimodo traduce, alla latina, “perfida”, cioè “traditrice della fiducia”). Al giovane resta soltanto il suo “desiderio tormentoso” (“pòthos”, πόθος, reso dal traduttore con “angoscia”); questo però non si può più definire amore, ma “una freccia di fuoco / e di dolore” scagliata dalla dea Afrodite (“Cipride”).
Ecco il testo originale del componimento (A. P. V 189), seguito dalla traduzione di Salvatore Quasimodo:
Nὺξ μακρὴ καὶ χεῖμα, μέσην δ’ ἐπὶ Πλειάδα δύνει·
κἀγώ πὰρ προθύροις νίσσομαι ὑόμενος,
τρωθεὶς τῆς δολίης †κείνης† πόθῳ· οὐ γὰρ ἔρωτα
Κύπρις, ἀνιηρὸν δ’ ἐκ πυρὸς ἧκε βέλος.
«Lunga la notte e inverno
sprofonda nelle Pleiadi, e io, davanti
la tua porta vado su e giù bagnato
dalla pioggia, ferito
dall’angoscia di volerti mia, o perfida.
Non amore ma una freccia di fuoco
e di dolore mi ha vibrato Cipride».
L’epigramma rientra nel genere del “paraklausìthyron” (παρακλαυσίθυρον, “canto davanti alla porta chiusa”), che presenta immancabilmente un innamorato, grondante di pioggia, davanti alla casa dell’amata in una notte d’inverno (gli innamorati, una volta, affrontavano i peggiori disagi per coronare i loro sogni…).
Altrettanto topici sono gli altri elementi del componimento: la donna “ingannatrice”; la sofferenza d’amore paragonata ad un dardo, la terminologia tipica della lirica arcaica. Tuttavia Asclepiade riesce a rivitalizzare questi elementi tradizionali, concludendo con un impietoso bilancio del suo malessere.
2) Nel secondo epigramma il poeta, in un doloroso soliloquio, cerca un rimedio alla propria delusione amorosa, prima rifugiandosi nel vino, poi rammentando a se stesso di non essere l’unica vittima di Afrodite ed Eros.
“Non tibi soli” (“non a te soltanto…”) era un tipico tema consolatorio nell’antichità: e anche noi diciamo “mal comune mezzo gaudio” (pur nella convinzione che sarebbe meglio non avere mai mali…).
L’ultima esortazione a bere serve ad esorcizzare l’immagine tetra della “lunga notte” della morte che attende tutti.
Ecco il testo greco (A. P. XII 50), seguito ancora dalla traduzione di Quasimodo:
Πῖν’, Ἀσκληπιάδη. Τί τὰ δάκρυα ταῦτα; Τὶ πάσχεις;
Οὐ σὲ μόνον χαλεπὴ Κύπρις ἐληΐσατο,
οὐδ’ ἐπὶ σοὶ μούνῳ κατεθήξατο τόξα καὶ ἰοὺς
πικρὸς Ἔρως. Τὶ ζῶν ἐν σποδιῇ τίθεσαι;
Πίνωμεν Βάκχου ζωρὸν πόμα· δάκτυλος ἀώς.
Ἦ πάλι κοιμιστὰν λύχνον ἰδεῖν μένομεν;
†Πίνομεν, δύσερως†· μετά τοι χρόνον οὐκέτι πουλύν
σχέτλιε, τὴν μακρὰν νύκτ’ ἀναπαυσόμεθα.
«Bevi, Asclepiade! Perché queste lacrime?
Ma che cos’hai? Non sei tu solo preda
della spietata Cipride, né solo
su di te Eros amaro tese l’arco
e le sue frecce. Perché ancora vivo
stai tra la cenere? Beviamo il succo
puro di Bacco. Così breve è il giorno!
O aspettiamo la lampada, compagna
del sonno? Ma via beviamo, disperato
amante! Tra non molto
la nostra lunga notte dormiremo»
L’epigramma si può dividere in due parti, scandite dal verbo “bere” (in greco “pìnō”, πίνω): nella prima il poeta riflette sulla sofferenza provocata dall’amore, ripiegandosi su stesso; nella seconda l’attenzione si concentra sulla fugacità dell’esistenza, allargandosi ad una prospettiva universale, evidenziata dalla prima persona plurale del congiuntivo esortativo (“beviamo”, “pìnōmen”, πίνωμεν).
Se l’esortazione iniziale, con tanto di “sfraghìs” (il “suggello” con cui il poeta cita il proprio nome), sembra introdurre il clima sereno del simposio, le successive interrogative (“Perché queste lacrime? / Ma che cos’hai?”), con effetto “a sorpresa” (“aprosdóketon”), introducono un sentimento di inquietudine, che culmina nell’interrogativa che conclude la prima parte (“Perché ancora vivo / stai tra la cenere?”).
Nel finale, dopo l’ulteriore invito a bere “il succo / puro di Bacco”, la lapidaria espressione “così breve è il giorno” (“dàktylos aòs”, δάκτυλος ἀώς, lett. “il giorno [è lungo] un dito”) introduce il mesto tema della brevità della vita.
Questo spunto è sicuramente ripreso dall’antico poeta Alceo di Mitilene (VII-VI sec. a.C.), il quale esortava i compagni a bere perché “il giorno è lungo quanto un dito” (δάκτυλος ἀμέρα, fr. 396 V., 1). Conseguentemente alcuni critici (ah questi critici sapientoni, che sprizzano gioia da tutti i pori quando si illudono di cogliere in fallo i poeti!) hanno supposto che la malinconia del poeta fosse solo “letteraria” e di maniera: ma, a parte il fatto che tutta la letteratura antica è basata su procedimenti di “intertestualità” pressoché obbligati, basterebbe l’affermazione finale (“tra non molto / la nostra lunga notte dormiremo”) per accorgersi che qui la presunta finzione letteraria si trasforma in sottile e palpabile inquietudine.
Non a caso, di questi versi si ricorderà Catullo nel suo carme V: “soles occidere et redire possunt: / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda” (“i soli possono tramontare e poi tornare; / ma noi, una volta che sia tramontata la breve luce, / dovremo dormire per una perpetua notte”).