Il titolo del nuovo corso di Latino per il biennio delle scuole superiori che Michela Venuto ed io stiamo pubblicando con l’editore Palumbo è “Lusus”. Questo titolo vuole esprimere l’idea di base di questo corso di latino, poiché allude a un percorso (si spera) stimolante e coinvolgente, che tenta di annoiare il meno possibile e di rendere piacevole l’assimilazione dei contenuti. Il corso dunque vuole fornire una via d’accesso alla lingua e alla civiltà dei Latini attraverso un’esposizione chiara ma senza rinunciare alla completezza e al rigore.
Fra le tante rubriche che abbiamo inserito nell’opera, abbiamo introdotto in ogni Unità la rubrica “Sapienza antica”, che mira sia a far conoscere i proverbi e i motti (sententiae) che maggiormente contraddistinguono la saggezza latina sia a fornire esempi di uno stile sintetico ed efficace.
Molti di questi detti latini sono universalmente noti, ma altri sono meno diffusi nell’uso comune e/o legati a circostanze e ambiti più specifici; potrà essere interessante, allora, proporne qui alcuni, per ritrovarli nella memoria o magari per conoscerli meglio.
1) Ad usum Delphini (“ad uso del Delfino”) – Il primogenito del re di Francia era detto “Delfino” (“Dauphin”) perché gli era assegnato, dal XIV secolo, il feudo del Delfinato, nella Francia sud-orientale, tra le Alpi e il Rodano. I libri ad usum Delphini erano censurati – in genere da solerti ecclesiastici – perché potessero essere letti dal giovane principe senza turbarne la sensibilità e il pudore. Il detto è usato ironicamente per indicare libri compilati con omissioni, adatti a lettori superficiali, oppure arbitrariamente “censurati” per banalizzarne il contenuto e renderlo inoffensivo.
2) Amantĭum caeca iudicĭa sunt (“I giudizi degli amanti sono ciechi”) – Citazione da Cicerone (De amicitia 85); secondo Girolamo era la traduzione di un passo del greco Teofrasto e rispecchia un frequente luogo comune, cioè la constatazione che chi ama (amans) non vede i difetti della persona amata; da qui la metafora dell’amor caecus, frequente in tutti i paesi europei: cfr., in inglese, due versi dal Mercante di Venezia di Shakespeare: “But love is blind, and lovers cannot see / the pretty follies that themselves commit” (“Ma l’amore è cieco e gli amanti non possono vedere / le belle follie che commettono loro stessi”).
3) Currenti calamo (“Con la penna che corre”) – Si usa questa frase per errori eventualmente sfuggiti nella fretta dello scrivere (lapsus calami, cioè “scivolone della penna”, semplice svista). La locuzione indica un modo di scrivere rapido, di getto, senza riflettere e senza porsi problemi a livello formale.
4) Cui prodest? (“A chi giova?”) – È quello che ci si deve chiedere in determinate circostanze; ad es., è la domanda che si pongono (o dovrebbero porsi) gli investigatori per risalire al colpevole di un delitto.
5) Dum spiro, spero (“Finché respiro, spero”) – Detto di origine ignota, frequente anche in altre lingue (ad es. il nostro “finché c’è vita c’è speranza”). In latino l’assonanza (o paronomasia) rende la sentenza facilmente memorizzabile.
6) In diebus illis (“In quei giorni”) – Questa espressione si trova nei Vangeli e non appartiene al latino classico, in cui la preposizione in seguita dall’ablativo di tempo sarebbe stata scorretta. Si usa popolarmente per dire “c’era una volta …”. Deriva da qui anche il termine “busillis”: come racconta un celebre aneddoto, un alunno scrisse sotto dettatura la frase, ma erroneamente la mise nella forma “in die busillis”, restando poi perplesso davanti a “busillis”; l’espressione divenne quindi sinonimo di “difficoltà insormontabile, intoppo” (e nella pratica scolastica non si contano i “busillis” che tormentano gli alunni nelle traduzioni, quando non riescono a copincollarsela da internet…)…
7) “Iniuriam qui facturus est, iam facit” (“Chi ha intenzione di commettere un’ingiustizia, già la sta commettendo”) – Motto di Seneca (De ira I 3, 1), che giudica negativamente l’intenzione di agire male, perché di fatto costituisce già un’infrazione alla giustizia.
8) Maxĭma debetur puĕro reverentĭa (“Al fanciullo si deve il massimo rispetto”) – Questa massima di Giovenale (Satire XIV 47) ha un alto valore pedagogico: ai ragazzi bisogna accostarsi con rispetto, comprensione e dolcezza. Soprattutto in questa epoca, in cui sembra che le tappe debbano essere bruciate sempre e a tutti i costi, sarebbe importante che gli adulti rispettassero tempi e modi della crescita dei bambini, senza indurli a fare per forza cose “da grandi” e trovando il modo corretto per rivolgersi a loro, senza turbarli e traumatizzarli.
9) Natura non facit saltus (“La natura non fa salti”) – Il motto, di origine aristotelica, afferma che in natura non succede nulla che non sia conseguenza di qualcosa che l’abbia preceduto. La massima fu fatta propria da Linneo nella sua Philosophĭa botanĭca (1751).
10) Omnĭa mea mecum porto (“Porto tutte le mie cose con me”) – Frase attribuita a vari filosofi greci (ad es. Biante di Priene, uno dei sette saggi, o Diogene il cinico); vuole sottolineare che il saggio porta sempre con sé la sua vera ricchezza, per cui poco gli importa la perdita dei beni materiali.
11) Quod differtur non aufertur (“Ciò che si rimanda non si perde”) – Il motto, che si rifà ad un diffuso luogo comune antico, invita a non “drammatizzare” su un rinvio, giacché esso non significa che si debba annullare definitivamente ciò che è stato dilazionato.
12) Relata refĕro (“Riferisco cose riferite”) – Con queste parole si scarica sugli altri la responsabilità di ciò che viene raccontato, specialmente se si tratta di notizie sorprendenti o spiacevoli; il nostro motto più affine è “ambasciator non porta pena”. Il motto contiene un poliptoto, cioè lo stesso verbo viene ripetuto in due modi e tempi diversi. La formulazione del detto è medievale, ma forse deriva dallo storico greco Erodoto, che in vari passi ammetteva di riferire cose che gli erano state narrate (ἀκοή).
13) Rem tene, verba sequentur (“Tieni stretto il concetto; le parole saranno una conseguenza”) – Significa che, nel sostenere una tesi, occorre tener presente anzitutto l’argomento centrale, da cui scaturiranno le parole necessarie. In altre parole, è un modo per dire che la sostanza del contenuto deve prevalere sulla forma. La frase fu rivolta da Catone il Censore a suo figlio, per guidarlo all’acquisizione di uno stile oratorio efficace.
14) Semel in anno licet insanire (“Una volta all’anno è lecito fare pazzie”) – Ogni tanto, anche alle persone più equilibrate è consentito (ed anzi risulta salutare) commettere qualche trasgressione e qualche follia; salvo poi a riacquistare prontamente l’equilibrio interiore e a riprendere il normale tran-tran quotidiano. Il motto divenne proverbiale nel Medio Evo, ma già in epoca antica Orazio aveva espresso lo stesso concetto: “dulce est desipere in loco” “è cosa dolce ammattire a tempo opportuno”, Odi IV 13, 28).
15) “Senectus ipsa morbus” (“La vecchiaia è di per se stessa una malattia”) – Considerazione pessimistica sulla vecchiaia, tratta dalla commedia Formione di Terenzio. Molti autori antichi hanno condiviso questa opinione: basti ricordare il poeta greco Mimnermo di Colofone (seconda metà del VII sec. a.C.) che nella sua elegie descrisse con toni del tutto negativi la vecchiaia, definendola “atroce” e “funesta”. Non sono mancati, però, i sostenitori della validità del periodo senile: il legislatore ateniese Solone osservava: “invecchio imparando sempre molte cose” (γηράσκω δ’ αἰεί πολλὰ διδασκόμενος, fr. 18 W.); e Cicerone compose un Cato Maior de senectute in cui esaltava i pregi di una vecchiaia saggia e operosa.