La mafalda palermitana

La “mafalda” è un tipico pane siciliano, realizzato con farina di semola rimacinata di grano duro, dalla particolare forma a serpentello (o, se si vuole, a doppia S) e ricoperta da molti semi di sesamo.

Proprio la presenza di questi ultimi (la “giuggiuliena” o, con termine più moderno, “cimino”) ha indotto alcuni a ipotizzare origini molto antiche, risalenti addirittura ad una ricetta araba. Storicamente, però, le origini dell’attuale mafalda risalgono all’Ottocento: secondo una leggenda (più piccante che dimostrabile) i panettieri, costretti a lavorare la notte, si ispirarono per questo pane alle forme prosperose delle loro donne.

Si dice però che in seguito, ai primi del Novecento, un maestro panificatore (a quanto pare catanese) lo abbia dedicato a Mafalda di Savoia, figlia secondogenita di Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro, in occasione della sua nascita (19 novembre 1902); il che fa pensare che, se l’idea fosse venuta all’ingegnoso fornaio un anno prima, il gustoso pane si sarebbe chiamato “Jolanda” (sorella di Mafalda e nata nel 1901), ma meglio così (anche per evitare le battute di dubbio gusto della Littizzetto…).

Mafalda di Savoia (1902-1944)

Quanto alla principessa Mafalda, sposò in seguito il principe tedesco Filippo, langravio d’Assia-Kassel, e fu poi deportata nel lager di Buchenwald, ove morì nel 1944 in seguito a un bombardamento alleato.

Per le seguenti note sulla mafalda, oltre alle fonti disponibili in rete, ho consultato il mio caro amico e coetaneo Toti, che mi ha fornito molte notizie utili, essendo delle mafalde un antico estimatore, un ottimo degustatore e un ineguagliabile farcitore; lo ringrazio affettuosamente del suo prezioso contributo.

Tanti anni fa, la mafalda era un pane bianco, non rimacinato, risultando così più soffice e più adatto alla farcitura; era morbida all’interno, dorata, gustosa, fragrante e con un aroma inconfondibile. La si poteva riempire in vario modo: anzitutto con le panelle e crocchette (ed era “la morte sua”, come si dice qui), ma anche con la mortadella e il formaggio svizzero a fettine sottilissime, oppure con le melenzane, o con olio, sale, pepe e acciughe o ancora, in epoche più recenti e trasgressive, con la nutella (il che a me pare una profanazione); in passato in certe zone della Sicilia, prima che arrivasse la brioche “con il tuppo”, la mafalda era anche servita con la granita.

Mafalda con mortadella
Mafalda con panelle
Melanzane fritte: un ottimo ripieno per le mafalde

Nelle friggitorie palermitane esisteva la “mezza mafalda”, di formato più piccolo, che veniva riempita con la milza sostituendo in questo caso la più comune focaccina; la “mezza mafalda” era più liscia, senza la “groppa” centrale, proprio per favorirne la farcitura.

Mezza mafalda con milza

La mafalda si comprava anche come pane ordinario per accompagnare il companatico, senza necessariamente farcirla, proprio per la sua gustosa morbidezza.

In alcune zone dell’isola questo tipo di pane può assumere forme diverse, chiamate variamente (ad es. “occhi di Santa Lucia” o “Corona”).

Chi (rimpiangendo forse i tempi del covid, in cui molti si improvvisarono panettieri) volesse notizie sulla ricetta e la preparazione di questo pane in casa, trova utili indicazioni in rete: ad es. gli ingredienti per 11 mafalde da 170 g sono: 700 ml di acqua, 800 g di semola di rimacina di grano duro, 200 g di farina 00, 10 g di lievito di birra, 10 g di miele di acacia o malto, 20 g di sale, 80 ml di olio di oliva, semi di sesamo “quanto basta” (formula per me sibillina e assolutamente discutibile, perché quello che basta a uno spesso non basta all’altro).

La difficoltà di realizzazione viene definita “media” (anche qui il concetto è molto soggettivo), il costo è basso (almeno a livello economico), il tempo complessivo di preparazione (fra preliminari, lievitazione e cottura in forno) è di circa due ore e mezza.

In realtà, però, è più comodo cercare la mafalda in un panificio, anche se bisogna dire che purtroppo ormai non tutti la fanno, soprattutto perché molti giovani (ovviamente per colpa dei loro parenti più grandi) non la conoscono abbastanza.

La mafalda è al centro di una divertente scena del bellissimo film “Baarìa” di Peppuccio Tornatore (2009); la ricordo citandone parti del testo dalla sceneggiatura del film, scritta dal regista con dialoghi in puro dialetto “baarioto” (come mi è capitato già di ricordare, esistono due versioni del film: quella in dialetto originale e quella, purtroppo, in italiano, che a mio parere perde moltissimo ma è l’unica trasmessa in Tv e in streaming).

Dal film “Baarìa”, scena 18; il giovane attore, che interpreta Peppino Torrenuova da ragazzo, si chiama Giovanni Gambino

Nella Bagheria di epoca fascista, in un deposito di foraggio, allevatori e carrettieri in fila davanti ai depositi di “scorza” caricano cibo per le mucche; i fratelli Torrenuova (Peppino e Nino, che nel film rappresentano rispettivamente il padre e lo zio del regista) sono in coda; all’angolo del deposito si vede un venditore di pane e panelle.

A questo punto, il giovanissimo Peppino (che ha un carattere provocatorio o, come si dice a Bagheria, “sbarrusu”) “nota un affarista appoggiato ad un’automobile, intento a mangiare con tutta calma una mafalda fumante”.

Spinto dalla fame, il ragazzino provoca l’affarista (interpretato dal bravo Aldo Baglio), dicendogli: “E quanto ci mìetti a manciàrisi ‘na mafàjda? S’era io ‘nta quattro muzzicùni manco ‘i muddìchi lassava!” (“E quanto ci mette a mangiare una mafalda? Se ero io in quattro bocconi neanche le briciole lasciavo”).

Tutti si voltano verso l’affarista provocato così platealmente; questi “fissa il bambino senza dire nulla”, poi si rivolge al panellaro e gli ordina: “Fammi una mafàjda cu otto panìelli!”. Mentre “Peppino è incredulo”, il fratello più grande “gli dà una gomitata” e pronuncia una frase preoccupata (“Buona nni finìu”, cioè “Ci è finita proprio bene!”).

L’affarista va poi verso i fratelli e sfida Peppino, dividendo il pane in quattro parti uguali; appoggia poi i quattro “bocconi” su una pila di casse, fissa il ragazzino e gli dice sprezzante: “Virìemu si si’ omu ri parùola” (“Vediamo se sei un uomo di parola”).

Il ragazzo, per nulla intimorito, “scruta gli enormi pezzi di pane con dentro due strati di panelle fumanti e, guardingo, li indica. L’uomo annuisce, serio, mentre intorno avanzano i curiosi. Peppino afferra il primo pezzo, se lo mette in bocca ma ne resta fuori mezzo. Qualcuno ride. L’affarista gli intima di continuare. Peppino si sforza, spinge più che può, ma invano. L’uomo gli mette una mano dietro la nuca, con l’altra pressa il pane a forza, finché non gli entra tutto in bocca”.

A questo punto Nino, preoccupato per il fratellino, esclama: “Ma com’è, fùoddi? Accussì affùca” (“Ma com’è, pazzo? Così lo soffoca!”); l’affarista però, implacabile, impone violentemente al “picciriddu” di continuare a mangiare: “pistìa, curnutu!”. La scena diventa convulsa: “Il piccolo prova a masticare ma naturalmente non ci riesce. Le risa della folla diventano un coro teso. […] Peppino si sforza ma non può muovere le mandibole. Comincia a piangere. Tra i curiosi volano segni di protesta. L’affarista fa per inveire contro di loro ma un anziano sellaio si mette in mezzo…”.

Dal film “Baarìa”: Aldo Baglio (al centro) nel ruolo dell’affarista

Il sellaio, di nome Turiddu, spintona l’affarista invitandolo a lasciare in pace il piccolo (“Chi si mìetti c’un picciriddu?  Brivùogna!”, “Si mette con un bambino? Vergogna!”). La folla, solidale con Peppino, si accalca intorno e copre i due ragazzini; così, “nella confusione, Nino agguanta gli altri tre pezzi di pane, afferra il fratello e scappano via”. La dissolvenza finale conclude la scena (che si può vedere su Youtube al link https://www.youtube.com/watch?v=WNELHWT0ln8&t=4s).

Dalla sceneggiatura del film “Baarìa”, Sellerio, Palermo, 2009

Lavoro minorile, bambini che vivono in strada e dalla strada apprendono i comportamenti necessari ad affrontare la giungla dell’esistenza quotidiana, adulti cinici e privi di ogni ritegno anche di fronte ai più piccoli: questa scena presenta un’efficace sintesi di un’epoca lontana (ma non troppo) e al tempo stesso regala un messaggio positivo, dato che il violento affarista viene beffato e che la gustosa mafalda, alla fine, viene meritatamente conquistata dai due ragazzi.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

3 commenti

  1. Caro prof. come sempre mi sorprende,non solo per le ricchezze storiche con cui tratta gli argomenti, ma anche perche’ mi riporta dietro nel tempo.La Mafalda mi fa ricordare quando ero studente e precisamente quando assaggiai, per la prima volta, panelle e crocchette e poi la milza.Io avendo origini agrigentine non ero abituato a questi cibi. La Mafalda la gustavo, per esempio, con la mortadella.Caro prof, il suo scritto mi ha stuzzicato l’appetito, quindi buon pranzo.

  2. Effettivamente tutto buono ad eccezione della milza (adesso hanno i sempre freschi o il panino tondo di Braccio di ferro). Saluti ed auguri

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