La prima volta la vediamo con la sua famiglia, intenta alla recita pomeridiana del Rosario nella villa dei Salina a poca distanza da Palermo, nel maggio dell’anno 1860.
L’intera famiglia si era radunata, come al solito, ascoltando “la voce pacata del Principe” che aveva ricordato “i Misteri Gloriosi e Dolorosi” (p. 17; cito dalla storica prima edizione di Feltrinelli, novembre 1958). Al termine, mentre “tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto” (ibid.), mentre le ragazze, i ragazzini e il primogenito “discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche” (p. 18), lei sta ancora accanto al marito, il principe Fabrizio “immenso e fortissimo”, la cui testa “sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali)) il rosone inferiore dei lampadari” (p. 19).
Subito ci appare tesa, nervosa, frenetica ed estatica al tempo stesso: «La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais, mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso» (p. 19). La prima immagine di Maria Stella, la moglie del Principe di Salina, ci presenta dunque la sua “prepotenza ansiosa”, “gli occhi belli e maniaci”, il suo “corpo minuscolo”, facendone quasi subito l’antitesi fisica e psichica del suo sposo: gigantesco, pacato e autoritario lui, piccola, sottomessa e tendenzialmente isterica lei.
Mezz’ora dopo è ora di cena; quando il principe arriva in sala da pranzo, «tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro alle loro sedie» (p. 30); unico elemento distintivo della consorte è il privilegio di aspettare l’arrivo del capofamiglia stando seduta, ma subito dopo, quando la cena inizia, i tempi e i modi del pasto sono scanditi da don Fabrizio.
Questi, mentre scodella ai familiari la minestra, osserva la sua famiglia, in un clima di timore reverenziale: «Mentre si mangiava in silenzio, gli occhi azzurri del Principe, un po’ ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li ammutolivano di paura» (p. 30). In realtà, però, il pater familias osserva figlie e figli con affetto e orgoglio: «Le femmine grassocce, fiorenti di salute, con le loro fossette maliziose e, fra la fronte e il naso, quel tale cipiglio, quel marchio atavico dei Salina. I maschi sottili ma forti maneggiavano le posate con sorvegliata violenza» (pp. 30-31). Ma al compiacimento del principe («“Bella famiglia”, pensava») si unisce il rammarico per un’assenza che lo addolora: il secondogenito Giovanni, “il più amato, il più scontroso”, se n’era fuggito a Londra, per vivere una “modesta vita di commesso”, rifuggendo dagli “agi palermitani” (p. 31).
Il ricordo del figlio lontano addolora e incupisce il principe; a questo punto Maria Stella pensa bene (anzi, pensa male) di consolare il marito: «S’incupì tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampaccia che riposava sulla tovaglia. Gesto improvvido che scatenò una serie di sensazioni: irritazione per esser compianto, sensualità risvegliata ma non più diretta verso chi l’aveva ridestata. In un lampo al Principe appari l’immagine di Mariannina con la testa affondata nel guanciale» (ibid.). Il gesto affettuoso della moglie irrita don Fabrizio, che non ama “esser compianto”; al tempo stesso, ridesta in lui una quiescente ma fortissima sensualità, che però non si indirizza verso la consorte, ma gli fa balenare il ricordo della sua giovane amante.
La conseguenza è immediata: don Fabrizio ordina di preparare la carrozza e comunica che dopo cena “scenderà” a Palermo. Di fronte a questa improvvisa decisione, gli occhi della moglie diventano “vitrei”: il principe si pente dell’ordine ormai dato, ma non può annullare una disposizione già data, per cui la conferma e anzi la integra ordinando al cappellano di famiglia, padre Pirrone, di andare con lui (il che, commenta l’autore, era “offensiva prepotenza” visto che don Fabrizio si appresta soltanto a una “avventura galante di basso rango”, p. 32).
Maria Stella non demorde: sia pure “con le lacrime agli occhi”, rivolge al marito un ultimo appello, “quanto mai vano”: «Ma, Fabrizio, di questi tempi… con le strade piene di soldati, piene di malandrini… può succedere un guaio» (p. 32). Il principe però minimizza, rassicura la moglie e prima di uscire «baciò frettolosamente la fronte ancor liscia che era al livello del suo mento» (ibid.).
Anche in questo caso, per un attimo “l’odore della pelle della Principessa” evoca in lui “teneri ricordi” e sta per indurlo a desistere, ma dalla finestra di sopra giungono le “strida acutissime” di Stella che lo invoca (“Fabrizio, Fabrizio mio!”). Evidentemente, «la Principessa aveva una delle sue crisi isteriche» (pp. 32-33): e tanto basta per indurre il principe a squagliarsela alla svelta.
Poche ore dopo, a Palermo, dopo aver depositato padre Pirrone a Casa Professa, il principe si avvia da solo in un quartiere malfamato, diretto dalla sua giovane amante. Mentre cammina, però, fa un bilancio della sua situazione coniugale: «Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinanzi alla legge divina e dinanzi all’affetto umano di Stella. Non vi è dubbio e domani mi confesserò a padre Pirrone. […] Pecco, è vero, ma pecco per non peccare più, per strapparmi questa spina carnale, per non esser trascinato in guai maggiori. Questo il Signore lo sa. […] Sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent’anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche. […] Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: ‘Gesummaria!’. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso… sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo? […] La peccatrice è lei!» (pp. 37-38).
Nel giro di pochi minuti, don Fabrizio passa dall’autocritica all’autoassoluzione, riversando sulla moglie la responsabilità del fallimento del loro ménage coniugale. L’educazione severissima, il pudore esasperato sino al ridicolo, l’attitudine bigotta che vede nel rapporto sessuale un “peccato” cattolicamente giustificato solo dalla necessità di dare dei figli (tanti figli) al marito: tutto ciò rende Stella una partner noiosa e sgradevole, “peccatrice” se non agli occhi di Dio sicuramente agli occhi del marito.
Non a caso, sulla via del ritorno, in carrozza il principe unisce il ricordo recente dell’incontro con Mariannina (che lo chiama “Principone” e si mostra “umile e servizievole” nel suo ruolo erotico) a un flash-back memoriale che gli riporta alla mente un’altra sua amante, una “sgualdrinella parigina” frequentata tre anni prima durante un soggiorno a Parigi (p. 39).
Ma anche in questo caso il principe si immalinconisce, prova disagio se non disgusto al ricordo delle sue amanti, pensando a «quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia rassegnata»; ancora una volta, si giudica «un porco, e niente altro» (ibid); e quando torna a casa, nella camera matrimoniale, trovando la moglie a letto, si commuove: «Quando si trovò nella camera matrimoniale, il vedere la povera Stella con i capelli ben ravviati sotto la cuffietta, dormire sospirando nel grandissimo, altissimo letto di rame, lo commosse e intenerì. “Sette figli mi ha dato, ed è stata mia soltanto.” Un odore di valeriana vagava per la camera, ultima vestigio della crisi isterica. “Povera Stelluccia mia” si rammaricava scalando il letto» (p. 40).
Verso l’alba, però, osserva ironicamente l’autore, «la Principessa ebbe occasione di farsi il segno della croce» (ibid.). La riconciliazione fra i due coniugi (che in realtà è solo una riconciliazione – momentanea – del principe con se stesso) sancisce uno “status quo” ormai consolidato, quello di un legame vetusto, basato in gran parte (da parte del marito) sul ricordo del tempo lontano della gioventù e sul senso del “dovere coniugale”.
L’indomani, a pranzo, la Principessa, «riconoscente delle consolazioni ricevute», fa servire al marito la gelatina al rhum, il dolce da lui preferito (p. 58).
Maria Stella ricompare nel cap. II, ambientato nel torrido agosto del 1860, in occasione del lungo trasferimento (ben tre giorni di viaggio!) della famiglia Salina nel feudo di Donnafugata. In occasione di una sosta alla fattoria di Rampinzèri, la Principessa appare «irritata ad un tempo ed inerte, cui la serenità del marito, però, dava ristoro» (p. 68).
Successivamente, all’arrivo a destinazione, Stella viene accolta dalle autorità locali con il dono di «uno scomposto mazzo di fiori, colti, del resto, mezz’ora prima nel giardino del palazzo» (p. 77): sembra proprio un destino, per la principessa, l’abitudine di ricevere doni “di seconda mano”… Ma le basta poi camminare verso la chiesa dando il braccio al marito, che, felice di essere ormai nel suo feudo, «sembrava un leone sazio e mansueto» (p. 78).
Tocca a Maria Stella, poi, al termine della funzione, il compito di invitare a cena il sindaco, l’arciprete e il notaio (come da istruzioni a lei “bisbigliate” da don Fabrizio durante la cerimonia). All’arrivo a palazzo Salina, la principessa, «che si reggeva soltanto per forza nervosa, andò di filato a letto» (p. 81) per riacquistare le forze in vista della solenne cena nel salone “di Leopoldo”.
La sera, durante la cena, Stella (ringalluzzita) conversa con l’arciprete su argomenti di stampo bigotto (le “beghe del Collegio di Maria”, p. 94); ma è lei poi a ricevere, per prima, l’omaggio della bellissima Angelica Sedàra, cui rivolge subito meritate lodi: «Angelica mia, da quanto tempo non ti avevo vista. Sei molto cambiata; e non in peggio» (p. 97).
L’indomani, durante la rituale visita della famiglia Salina al monastero di Santo Spirito, per pregare sulla tomba della Beata Corbèra antenata del principe, Stella è una presenza doverosa ma impalpabile; l’attenzione dell’autore si concentra sulle incomprensioni fra Tancredi e Concetta (gelosa delle attenzioni del cugino per Angelica), senza dare alcun rilievo al ruolo materno della principessa, che non vede, non si accorge, non capisce. Superficiale e fragile, Stella si limita a una sorta di ruolo “istituzionale” di cui però si compiace esteriormente.
Alla sua indolente passività Stella sembra finalmente ribellarsi qualche tempo dopo, una sera in cui don Fabrizio, dopo che sono andati a letto, le riferisce che Tancredi con una lettera lo ha incaricato di chiedere a don Calogero Sedàra la mano di sua figlia Angelica.
La reazione della principessa è rabbiosa: «Ed io che avevo sperato che sposasse Concetta! Un traditore è, come tutti i liberali della sua specie; prima ha tradito il Re, ora tradisce noi! Lui, con la sua faccia falsa, con le sue parole piene di miele e le azioni cariche di veleno! Ecco che cosa succede quando si porta nella casa gente che non è tutta del vostro sangue! […] Io lo avevo sempre detto! ma nessuno mi ascolta. Non ho mai potuto soffrirlo quel bellimbusto. Tu solo avevi perduto la testa per lui!» (p. 122).
Il narratore onnisciente, a questo punto, si preoccupa di chiarirci il vero pensiero di Stella (meno male che esistono i narratori onniscienti… sono un bell’aiuto per i lettori pigri!): «In realtà anche lei era stata soggiogata dalle moine di Tancredi; anch’essa lo amava ancora; ma la voluttà di gridare “la colpa è tua!” essendo la più forte che creatura umana possa godere, tutte le verità e tutti i sentimenti venivano travolti» (pp. 122-123). Stella è categorica e chiede al marito di non accettare la richiesta di Tancredi: «Ma tu non lo devi fare, Fabrizio, non lo devi fare, non lo farai, non lo devi fare!» (p. 123). L’insolito tono ribelle si accompagna a una forte tensione emotiva: «La voce diventava acuta, il corpo cominciava a irrigidirsi».
Don Fabrizio, imperturbabile, prepara la valeriana per la moglie e le spiega le motivazioni che rendono il matrimonio di Tancredi con Angelica un ottimo investimento per l’amato nipote; intanto, le “cinque enormi dita” del principe sfiorano “la minuscola scatola cranica di lei” (p. 124). Stella singhiozza sommessamente, mentre «il fuoco dell’ira si era mutato in accoramento» (ibid.), ma a calmarla definitivamente è la “falsa furia” con cui il principe la zittisce: «E poi non voglio grida in casa mia, nella mia camera, nel mio letto! Niente di questi “farai” e “non farai”! Decido io; ho già deciso da quando tu non te lo sognavi neppure. E basta!». Nella foga, don Fabrizio si tira un pugno sul ginocchio, si fa male e si calma; quanto alla moglie, «era spaurita e guaiolava basso come un cucciolo minacciato» (ibid.).
A quel punto, il principe augura la buona notte alla sua “Stelluccia”: «Baciò la moglie, in fronte prima, segno di riconciliazione, in bocca poi, segno di amore. Si ridistese, si voltò dalla parte del muro. Sulla seta della parete l’ombra sua coricata si disegnava come il profilo di una giogaia montana su un orizzonte ceruleo».
E “Stelluccia”? Paradossalmente, si sente «tutta consolata e orgogliosa di aver per marito un uomo tanto energico e fiero. Che importava Tancredi… ed anche Concetta…» (ibid.).
La velleitaria protesta della debole e minuscola donna si spegne di fronte alla “consolazione” e all’“orgoglio” per avere cotanto marito; Stella non ha né la forza né la voglia di insistere su un’opinione che, fra l’altro, era basata più su pregiudizi generici che su una sostanza reale.
Molto più sanguigna e tenace sarà la protesta di don Ciccio Tumeo, l’organista della chiesa e compagno di caccia di don Fabrizio, di fronte alla comunicazione del matrimonio di Tancredi: «Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!» (p. 147). Con la sua intelligenza pratica e con la sua sincera devozione alla causa dei “padroni”, don Ciccio si ribella in modo più deciso ai disegni del principe, provocandone una reazione violenta; alla fine però don Fabrizio si limita a ribattere: “certe cose non le potete capire” (p. 148).
In occasione della prima visita di Angelica alla famiglia Salina nella nuova veste di fidanzata ufficiale di Tancredi, Stella ormai appare consacrata alla nuova causa: «la Principessa aveva ritirato le proprie riserve dinanzi all’ira maritale che le aveva, non è sufficiente dire respinte, ma addirittura fulminate nel nulla; baciò ripetutamente la bella futura nipote e la strinse a sé tanto forte che alla giovinetta rimase impresso sulla pelle il contorno della famosa collana di rubini dei Salina che Maria Stella aveva tenuto a portare, benché fosse giorno, in segno di festa grande» (p. 168).
Poco dopo, durante la conversazione, la principessa assume un ulteriore ruolo, piuttosto banale: «Dalla Principessa, che possedeva in grado eminente la facoltà di ridurre le emozioni al minimo comun denominatore, vennero narrati sublimi episodi della fanciullezza di Tancredi; e tanto essa insistette su questi che davvero si sarebbe potuto credere che Angelica dovesse riputarsi fortunata di sposare un uomo che a sei anni era stato tanto ragionevole da sottomettersi ai clisterini indispensabili senza far storie, e a dodici tanto ardito da aver osato rubare una manata di ciliegie» (pp. 169-170). Il dettaglio relativo alla “facoltà di ridurre le emozioni al minimo comun denominatore” contribuisce ad accentuare la sensazione di un personaggio ridotto alla sola esteriorità e alla mera formalità, incapace di provare emozioni vere e profonde.
Quando a Donnafugata arriva il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, incaricato di proporre a don Fabrizio un seggio nel senato del nuovo Regno d’Italia, l’ospite viene introdotto nello studio del principe; nell’attesa, Chevalley osserva una “costellazione di miniature” della famiglia Salina; la più grande di esse attira la sua attenzione: «Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne, con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo» (p. 205).
Questa raffigurazione ha l’efficacia di un vero e proprio flash-back, mostrandoci il principe e sua moglie molti anni prima, nel momento delle nozze: il gesto con cui la “giovanissima sposa” abbandona il capo sulla spalla del marito, “in atto di completo abbandono amoroso”, provocandone il sorriso compiaciuto, è già una prefigurazione evidente di quello che sarebbe stato il loro legame matrimoniale: una dipendenza assoluta da parte di lei e un’occasione di sporadico compiacimento per lui.
Il VI capitolo presenta il celebre episodio della festa da ballo in casa Ponteleone nel novembre 1862. La narrazione si apre con uno “zoom” sulla moglie del Gattopardo: «La principessa Maria Stella sali in carrozza, sedette sul raso azzurro dei cuscini, raccolse il più possibile attorno a sé le fruscianti pieghe della veste» (p. 251).
Pochi giorni prima, la principessa aveva ricevuto una missione diplomatica: infatti si era recata a far visita a Margherita Ponteleone per ottenere che l’invito al ballo fosse esteso ai Sedàra. Ancora una volta Stella si rivela “utile” nel disbrigo delle pratiche mondane, contribuendo in questo caso a eliminare in tempo «una delle spinucce che il fidanzamento di Tancredi aveva inserito nelle delicate zampe del Gattopardo» (p. 253).
Durante la serata, mentre Angelica “mieteva allori”, Maria Stella «spettegolava su di un divano con due vecchie amiche» (pp. 259-260); la nostra principessa è una formalista un po’ nevrotica, però conosce gli usi della società in cui vive e ne è pienamente partecipe. Ben diverso è lo stato d’animo del consorte, che si sente sempre più pervaso dal “cattivo umore”; a un certo punto, esasperato dalla noia e dalla malinconia, pensa di aver fatto malissimo a recarsi al ballo: «Stella, Angelica, le figliuole se la sarebbero cavata benissimo da sole, e lui in questo momento sarebbe beato nello studiolo attiguo alla terrazza in via Salina, ad ascoltare il chioccolio della fontana ed a cercar di acchiappare le comete per la coda» (p. 263). Mondanità, formalismi e rituali scontati sono per il principe cose inconsistenti e noiose, mentre per la moglie e le figlie sono un’occasione (forse l’unica) per “cavarsela da sole”.
A risollevare il principe saranno Tancredi e e soprattutto Angelica, che lo invita a danzare con lei. E mentre danza un valzer con la bellissima ragazza (e qui torna in mente la scena del film di Luchino Visconti, con il ballo di Burt Lancaster con Claudia Cardinale), il principe si sente ringiovanito: «ad ogni giro un anno gli cadeva giù dalle spalle; presto si ritrovò come a venti anni quando in questa sala stessa ballava con Stella, quando ignorava ancora cosa fossero le delusioni, il tedio, il resto. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi, “roba per gli altri”» (p. 271).
Nel VII capitolo, con un forte stacco temporale, siamo ormai nel luglio 1883; il principe di Salina, reduce da una visita medica a Napoli, ha avuto un malore al ritorno ed è stato condotto all’albergo Trinacria. Era da tempo che don Fabrizio sentiva che la vita sfuggirgli: «Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia» (p. 283).
In questo stato d’animo rassegnato, in mezzo a questi pensieri cupi, non c’era nessuno con cui sentisse di potersi confidare; in particolare, ciò non era avvenuto con Stella che, «divorata dalla cancrena del diabete, si era pure aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene» (p. 284). L’unico a capirlo era stato Tancredi, quando gli aveva detto, con la sua consueta ironia, «Tu, zione, corteggi la morte».
Ora, però, nella stanza d’albergo che sarà il suo ultimo alloggio, il principe ripensa alle “povere cose care” già perdute o destinate ad essere perdute: la sua casa, il suo osservatorio astronomico, il «povero padre Pirrone, che era polvere anche lui», i quadri dei feudi, il «grande letto di rame nel quale era morta la sua Stelluccia» (p. 290). Il ricordo della moglie è commovente, ma è soltanto uno fra gli altri: non emerge prepotentemente, non ha la forza devastante di una passione profonda.
Quando, poco dopo, il principe fa un “bilancio consuntivo della sua vita”, prova a «raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici» (p. 294); e fra quei momenti, pochissimi riguardano il ricordo di Stella: «Due settimane prima del suo matrimonio, sei settimane dopo; mezz’ora in occasione della nascita di Paolo, quando sentì l’orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina» (ibid.).
L’ultima figura femminile nell’esistenza di don Fabrizio non ha le sembianze della sua “minuscola” consorte; la Morte, per lui, ha l’aspetto desiderabile di una “giovane signora” troppo a lungo attesa: «Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto» (p. 297).
Nel film di Luchino Visconti (1963), la parte di Maria Stella fu affidata all’attrice napoletana Rina Morelli (1908-1976), che rese alla perfezione il carattere debole, instabile, insicuro e nevrotico della moglie del Gattopardo. La Morelli era la moglie di Paolo Stoppa, che nel film interpreta don Calogero Sedàra.
Nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, Maria Stella è, come si è visto, un personaggio “minore”, che però ha “scelto” di restare in questa condizione “marginale”, accontentandosi di un’esistenza esteriore di brava moglie e brava madre, senza mai alzare la cresta, accettando i capricci e i tradimenti del marito e sopportandone le ire, le malinconie e gli sbalzi d’umore.
In questa figura patetica, l’autore ha ritratto un mondo aristocratico ormai in disfacimento, abulico, ripetitivo, monotono e fondamentalmente rassegnato. Non a caso, in questo romanzo, il senso della vitalità e del progresso viene incarnato da Tancredi e anche da Giovanni, il figlio “lontano” del Gattopardo, il ribelle che (per sua fortuna) ha scelto in tempo un’altra strada (in proposito, cfr. su questo blog https://pintacuda.it/2023/01/04/il-figlio-del-gattopardo/).